L’arte come un’ecologia creativa. Antonio Spadaro su Michelangelo Pistoletto

Non basta raccontare l’arte. Lo storytelling culturale come forma di partecipazione, a partire dal Terzo Paradiso e i Quadri specchianti di Michelangelo Pistoletto

Quando ho evocato, su Artribune, l’immagine potente di Michelangelo (Buonarroti) che colpisce con il martello il Mosè, la sua creatura silenziosa, ho voluto dare voce a un disagio comune: quello che proviamo davanti a un patrimonio artistico che sembra spesso non parlarci più. Non perché le opere abbiano perso valore, ma perché noi, forse, abbiamo perso la capacità di ascoltarle.

Lo storytelling culturale come via 

Così ho proposto di ricorrere allo storytelling culturale come via per restituire alle opere la loro voce: per farle uscire dall’invisibilità, per reinserirle nel tessuto del nostro tempo, delle nostre domande. Pensavo a un racconto che non fosse artificiale o ornamentale, ma che scaturisse da un ascolto profondo del luogo, del contesto, dell’opera stessa. Tuttavia, mentre scrivevo, mi sono domandato: che cosa penserebbe Michelangelo (Pistoletto) di questa proposta? Se provassi a mettermi nei suoi panni, quale prospettiva si aprirebbe? L’idea di questo scambio di posizioni immaginarie è dovuta a due fattori. Il primo è l’abitudine radicata nella tradizione della Ratio studiorum dei gesuiti a insegnare a prendere il posto dell’altro nel ragionamento fino a difenderlo per comprendere davvero il suo ragionamento. Il secondo è la formula trinamica di Pistoletto per cui, quando A e B si incontrano, si apre uno spazio vuoto e creativo, che non è la sintesi di A e B, né un equilibrio tra i due, ma un contesto nuovo, e dunque anche un modo nuovo di pensare e di vedere le cose. E questo è ciò di cui tutti abbiamo bisogno.

I Quadri specchianti di Pistoletto

Provo allora a farlo. Immagino una voce che, pur non parlando in sua vece, si lasci ispirare dalla sua opera e dal suo pensiero. Immagino che mi risponda così: L’arte non ha bisogno di essere raccontata: ha bisogno di essere vissuta. Ed è una risposta che non mi lascia indifferente. Nei Quadri specchianti Pistoletto non vuole raccontare, ma coinvolgere. Chi vi si avvicina non guarda l’opera: entra in essa. La propria immagine, riflessa tra le figure serigrafate, diventa parte dell’opera. In questo senso l’arte non è oggetto, ma relazione; non comunicazione, ma inclusione. Così lo storytelling, come io l’ho inteso inizialmente, potrebbe apparire – a una voce come quella di Pistoletto – una mediazione esterna, un’abitudine culturale che rischia di restare in superficie. L’arte, invece, chiede trasformazione. Non si tratta solo di capire o di spiegare: si tratta di lasciarsi cambiare, di assumere la responsabilità di un incontro.

Michelangelo Pistoletto
Michelangelo Pistoletto

Il Terzo Paradiso di Pistoletto

Il Terzo Paradiso lo dice bene: non è una narrazione, ma un simbolo da incarnare. Non un’opera da contemplare, ma un gesto collettivo, un invito alla responsabilità universale. L’arte qui non si guarda: si vive. E allora mi chiedo: forse lo storytelling di cui parlo deve uscire dalla logica dell’interpretazione e diventare testimonianza. Non un commento all’opera, ma un atto che nasce dall’averla attraversata.
In questo senso, anche le narrazioni più potenti sono quelle che derivano da un’esperienza. Raccontare l’arte non vuol dire costruire storie attorno all’opera, ma lasciarsi raccontare da essa. Diventare, per così dire, parte di un’ecologia creativa, dove l’osservatore è anche creatore.
Il rischio da evitare è quello di un’arte comunicata ma non partecipata. Di musei che espongono opere come reliquie, ma che dimenticano il loro potenziale vitale. Di un’estetica dei like che consuma immagini invece di abitarle. Eppure, proprio questa critica mi offre l’occasione di ripensare lo storytelling. Non più come strategia culturale, ma come gesto incarnato. Come possibilità di costruire relazioni nuove tra l’opera, lo spazio e chi lo attraversa. Come racconto vissuto.

Lo storytelling culturale e l’arte contemporanea

D’altronde, anche il Terzo Paradiso è un racconto, ma in forma di segno. Anche Cittadellarte (la Fondazione Pistoletto a Biella) è una narrazione concreta, fatta di relazioni, di processi, di trasformazioni. È un racconto che accade nel tempo, che coinvolge, che chiama.
In questo spazio vuoto che col dialogo Michelangelo ed io abbiamo creato – opera creativa essa stessa, per cui in ogni presentazione del nostro libro Spiritualità (Marsilio) è una performance e si recita a soggetto – entrambi cerchiamo un’arte che torni a essere esperienza, che rientri nella carne del mondo, che interrompa lo scroll della distrazione.
La differenza è forse solo nell’origine del gesto: per me, è il racconto che può riattivare l’opera; per lui, è l’opera che genera relazione, e quindi racconto. Ma in entrambi i casi, il fine è la presenza. Il martello che colpisce il Mosè non è più frustrazione, ma domanda di relazione. E la risposta non sta né solo nel racconto né solo nell’azione. Sta nello spazio nuovo che si apre quando racconto e azione si incontrano. Non propongo una sintesi tra la mia posizione e quella – immaginata – di Pistoletto. Ma qualcosa che nasce dal loro attrito. Un punto in cui il racconto si fa gesto, e il gesto si fa racconto. L’opera non chiede più soltanto di essere narrata, né solo vissuta. Chiede di essere abitata, condivisa, attraversata. È questa, forse, la soglia nuova. Uno spazio terzo in cui arte, comunicazione e responsabilità si intrecciano. E noi, in quello spazio, non siamo più spettatori. Ma partecipi.

Antonio Spadaro

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