Queer, attivismo e comunità LGBTQIA+. A che punto siamo oggi in Italia?

La parità dei diritti, la questione linguistica, le conquiste raggiunte attraverso i decenni… anche se i Pride si sono diffusi in tutta Italia, c’è ancora tanta strada da fare. Facciamo il punto assieme ai curatori della mostra Ultraqueer e alla vicepresidente Circolo Mario Mieli di Roma

Le manifestazioni legate al mondo LGBTQIA+ hanno colorato, da nord a sud, le piazze di tutta Italia in questi mesi estivi, spesso accompagnate da un calendario di eventi culturali e divulgativi che hanno acceso i riflettori attorno a tematiche non ancora abbastanza diffuse, seppur di grande attualità. Quali sono i bisogni e le urgenze della comunità omosessuale oggi? Che significato ha assunto negli ultimi anni il Pride? Qual è il significato dei tanti termini che definiscono i diversi orientamenti sessuali e di genere? Le persone omosessuali godono di pari trattamenti e diritti all’interno della società? Abbiamo cercato di far chiarezza su tutti questi punti con alcuni attivisti incontrati in occasione di Ultraqueer, la mostra collettiva svoltasi tra la fine di giugno e l’inizio di luglio a Palazzo Merulana a Roma che ha raccolto le ricerche di artisti in grado di mettere in discussione eteropatriarcato, binarismo di genere e tante altre forme di ordine precostituito che non corrispondono più al sentire comune. A rispondere alle nostre domande, sono stati i curatori della mostra Carlo Settimio Battisti e Davide Lunerti e la vicepresidente Circolo Mario Mieli Ilaria Di Marco.

Laurence Philomene, Kris, Trans Gaze, 2018

Laurence Philomene, Kris, Trans Gaze, 2018

Facciamo chiarezza. Spiegateci cosa vuol dire “essere queer”.
Carlo Settimio Battisti e Davide Lunerti: Il termine “queer” ha origine dalla riappropriazione di un vocabolo inglese utilizzato in modo dispregiativo per riferirsi alla comunità omosessuale, ma la sua etimologia affonda le radici nel tedesco, dove assume il significato di “diagonale”, “di traverso”, “storto”, in contrapposizione allo “straight”, che specularmente significa “dritto”, “giusto”, “convenzionale”, e anche “eterosessuale”. Sono quindi queer tutte le identità di genere e orientamento sessuale che deviano dal percorso della normatività, che non rispettano e non si identificano in determinate etichette, stereotipi, canoni estetici e categorie sociali convenzionalmente accettati.

In definitiva…
CSB e DL: Il pensiero queer rifiuta ogni sistematicità per non correre il rischio di sfociare nella discriminazione, perché se in ogni sistema c’è un ordine, una gerarchia, allora c’è anche un sopra e un sotto, un fuori e un dentro, c’è chi vince e chi perde, chi viene inclusə e chi invece viene emarginatə. Il queer rispecchia la realtà del mondo in cui viviamo oggi: una realtà complessa, multiforme, mai uguale a se stessa nel tempo e nello spazio, in continua trasformazione e senza linee di confine solide o permanenti.

Come mai solo negli ultimi anni abbiamo assistito a una proliferazione di termini e definizioni sulle diverse sfumature dell’identità e dell’orientamento sessuale?
CSB e DL: Queste varie sfumature ed espressioni di genere ovviamente sono sempre esistite, ma costrette lungo i secoli alla cancellazione storica da condizioni sociali, religiose e ambientali, che poi tuttavia decadono con l’avanzare del progresso. Oggi abbiamo una serie di strumenti linguistici per rappresentarle e la volontà di continuare a migliorarli.

Come mai ora questi temi sono riusciti a fare breccia entrando nel dibattito pubblico?
CSB e DL: È il risultato di un processo lungo, iniziato a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, dal clima rivoluzionario che si respirava in quegli anni e in cui venivano contestate le modalità del sistema sociale vigente in ogni suo aspetto: dalle correnti femministe ai moti studenteschi, dalle lotte degli operai al movimento di liberazione omosessuale. Contestualmente nasceva la rivista FUORI, di cui in mostra abbiamo esposto dei numeri originali appartenenti all’Archivio del CCO Mario Mieli, dove per la prima volta si affrontava in maniera critica e divulgativa la questione omosessuale e grazie al quale fu possibile organizzare le prime manifestazioni.

Veronique Charlotte, Trascendent, Gender Project 2020

Veronique Charlotte, Trascendent, Gender Project 2020

E poi c’è stato l’avvento del web.
CSB e DL:
Sì, che ha reso ancora più coesa ed efficace la rete dei movimenti per i diritti LGBTQIA+. Ancora oggi, e negli ultimi anni, se tante minoranze sessuali e di genere sono emerse è grazie ad un mezzo che ha unito persone geograficamente distanti tra loro portando ad unire le loro voci. Questo, unito agli sforzi e ai sacrifici delle associazioni di attivismo, ha portato ad una progressiva visibilità della comunità LGBTQIA+, fino al punto in cui i media non hanno più potuto ignorare il fenomeno e hanno iniziato a parlarne a loro volta, pur creando dinamiche controverse come il rainbowashing, ma contribuendo tuttavia ad allargare a macchia d’olio la consapevolezza sulla comunità e le sue lotte. È grazie a questi elementi se oggi contiamo la partecipazione al Pride di Roma di 900.000 persone.

In che modo un atteggiamento queer può migliorare la società e il livello del benessere collettivo?
Ilaria Di Marco: Il pensiero queer stimola l’autoriflessione e mette in discussione i preconcetti che nutriamo su genere e sessualità, verso una consapevolezza e accettazione maggiore del sé, un dialogo più intimo e un rapporto più stretto con la propria interiorità. Non si tratta solo di promuovere la sperimentazione della sessualità o di indagare l’espressione di genere, ma di una vera e propria modalità d’azione, che ci spinga ad andare oltre le convenzioni sociali per abbracciare le nostre complessità divergenti. Sia che ci si rispecchi in esse o meno, è importante ricordare che siamo liberə di essere ciò che sentiamo di essere, e che le etichette che ci imponiamo, sebbene possano avere utilità per affermarci e conoscerci, rimangono pur sempre costruzioni sociali, e in quanto tali non rifletteranno mai del tutto fedelmente la realtà.

Anche la manifestazione annuale è cambiata fortemente nel corso del tempo. Prima chiamata “Gay Pride”, da qualche anno a questa parte ha preso il nome di Pride, un ombrello sotto al quale si sfila per i diritti di omosessuali, gay, lesbiche, trans ma anche contro il razzismo, l’abilismo e ogni tipo di discriminazione sociale. Come è avvenuto il passaggio di significato e paradigma in questo senso?
IDM:
È avvenuto con la rivendicazione da parte delle singole componenti della comunità (lesbiche, trans, bi ecc) di avere maggiore visibilità nel movimento, affermando la propria identità specifica anche nella terminologia. Originariamente, infatti, i termini “gay” e “omosessuale” erano usati in maniera onnicomprensiva per tutta la comunità LGBTQIA+, e solo successivamente si è fatta strada l’idea che dovessero indicare solo la quota maschile e cis. Per i Pride il passaggio risale agli ultimi due decenni e tuttora nel linguaggio comune, così come nei giornali e nei media, si sente menzionare il “Gay Pride”. È un grave errore, poiché appunto “gay” attualmente non identifica più ogni persona LGBTQIA+.

E poi?
IDM:
Su tematiche come abilismo e razzismo, la comunità chiaramente è sempre stata intersezionale (banalmente, le persone LGBTQIA+ possono essere nere, disabili, e così via come tutti e tutte). Tuttavia, anche qui c’è sempre maggiore consapevolezza di avere rivendicazioni specifiche, che s’intersecano con quelle del movimento creando dei punti di contatto, politicamente parlando. L’idea è che non solo una persona può appartenere a più minoranze, ma che il sistema di pensiero che assoggetta una minoranza è lo stesso che assoggetta tutte. Da qui la necessità di cooperare.

Edmung Liang, Silent Duck

Edmung Liang, Silent Duck

A che punto siamo con la conquista dei diritti? A che livello vengono ancora percepite forti discriminazioni in Italia?
IDM:
Siamo in un limbo. A livello internazionale, i diritti delle persone LGBTQIA+ sono a macchia di leopardo, tra nazioni che permettono matrimonio e adozioni e altre che prevedono la pena di morte. E anche nei luoghi reputati più sicuri non si può dare nulla per scontato, si veda la recente sparatoria alla vigilia dell’Oslo Pride. In Italia il movimento ha all’attivo due leggi, la 164/1982 per il cambio di sesso e la 76/2016 per le unioni civili: se la prima richiederebbe un aggiornamento per permettere una piena e più veloce procedura di autodeterminazione, la seconda è nata per essere già superata, prevedendo l’unione civile al posto del matrimonio egualitario ed essendo stata stralciata la parte sulla stepchild adoption. Il Ddl Zan, per le misure di contrasto e prevenzione alla discriminazione, non ha visto neanche la luce.

Che significato assumono questi fatti?
IDM:
Tutto questo si traduce in una parità di diritti mai raggiunta e in una infinità di situazioni in cui una persona LGBTQIA+ si trova a non essere tutelata dalla legge. Il livello a cui le discriminazioni vengono percepite è tanto comunitario quanto privato: che sia all’anagrafe, a casa, nelle scuole, sul luogo di lavoro, per strada, in sala parto o nelle aule del Parlamento, nessuna persona della comunità può dire di non averne subite. Attualmente, le associazioni Famiglie Arcobaleno e Rete Lenford hanno presentato una proposta di legge per l’eguaglianza e la pari dignità familiare, chiedendo il matrimonio egualitario, il riconoscimento dei figli e delle figlie alla nascita e l’accesso all’adozione e alla procreazione assistita. L’augurio è che possa essere approvata un giorno.

Anche la questione linguistica, che porta con sé in un certo senso retaggi di un passato carico di iniquità, comporta forti complessità nel suo tentativo di evoluzione. A che punto siamo in Italia con il dibattito su questo tema? Pensate che si riuscirà mai a raggiungere un accordo che accontenti tutti attenuando le resistenze?
IDM: Il dibattito linguistico è un altro tema molto ampio, difficile da riassumere qui in poche parole. Diciamo che, partendo dalla necessità di ripensare il linguaggio e di renderlo più inclusivo, sono state avanzate diverse proposte, ma che queste sono ancora oggetto di dibattito, a volte anche all’interno dello stesso movimento. La lingua italiana non aiuta poiché rende difficoltoso l’uso di un genere neutro. Attualmente si sostituisce l’ultima lettera di parola, quando questa ne determina il genere, con l’asterisco (*), schwa (ə), la desinenza -u, formule che includano due generi come “tutti e tutte”, il femminile sovraesteso. Qualsiasi cosa pur di superare il più comune maschile sovraesteso.

– Giulia Ronchi

https://twmfactory.it/ultraqueer/

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Giulia Ronchi

Giulia Ronchi

Giulia Ronchi è nata a Pesaro nel 1991. È laureata in Scienze dei Beni Culturali all’Università Cattolica di Milano e in Visual Cultures e Pratiche curatoriali presso l’Accademia di Brera. È stata tra i fondatori del gruppo curatoriale OUT44, organizzando…

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