Messaggi artistici dalla quarantena #2. Il trauma, il lutto, il dolore

Secondo appuntamento con la rubrica che dà voce agli artisti sui temi di questa fase storica complessa e incerta. Per affidarci al potere visionario e catartico dell’arte anche in questi mesi difficili fatti di assenza, trauma, desiderio dell’altro lontano, riscoperta della nostra zona di conforto ‒ a tratti divenuta sconfortante ‒ e degli oggetti inanimati che ci abitano e che abitiamo, del tempo perduto e ritrovato, del risveglio della natura, del grande bisogno di cambiamento.

Una delle cose più strazianti di questi giorni è non potere piangere insieme i nostri morti da quando funerali e cerimonie sono stati vietati. Quelli che non ce l’hanno fatta, che il virus o altre malattie si sono portati via, quelli che non abbiamo potuto salutare. Sono vietati gli assembramenti, sono obbligatorie le mascherine, l’esercito e le forze dell’ordine controllano che non si esca da casa se non per “prime necessità”. La paura della morte, della malattia, della perdita della libertà sono alla base di un trauma collettivo che tarderemo a elaborare. Alcuni artisti hanno provato a farlo con noi. Alfonso Leto, Vlady, Linda Randazzo, Desideria Burgio, Angelo Di Bella, Simone Sapienza.

Mercedes Auteri

LE PUNTATE PRECEDENTI

Messaggi artistici dalla quarantena #1. Paesaggio senza figura

ALFONSO LETO

Alfonso Leto, Vita sedentaria, marzo 2020, olio e graffito su ardesia spezzata, 120 x 90 cm

Alfonso Leto, Vita sedentaria, marzo 2020, olio e graffito su ardesia spezzata, 120 x 90 cm

La mia produzione è attraversata periodicamente da diverse opere in cui la pittura serve la parola (la scrittura), ne celebra l’insostituibile funzione comunicativa. Il motto di spirito, l’aforisma, il calembour che manipola il senso delle parole possono essere assunti dalla pittura e condotti in una dimensione epigrafica. Nascono così opere quali i codici fiscali dei poeti, Coito ergo sum, il mio necrologio, o il recente La merce esposta non si vende. Nel 2009 nasce Mottetto, una combine (pittura e oggetti) che in un ordine quasi da decoro araldico, da corredo d’altarino devozionale, evoca la sapidità di Totò (“Signori si nasce”) e l’enigmistica scaltra di Duchamp (“Del resto a morire sono sempre gli altri”). Il luogo comune, se ben confezionato, se composto nella bara estetica del distacco araldico, diventa premonizione, sancisce il diritto dell’arte ad assumere gli strumenti dello humour e finisce forse con diventare lapidario per tutti gli usi futuri. Rileggendola oggi non posso che complimentarmi per precisione sintattica e formale da spendere anche in questi nostri giorni di morte, di paura trattenuta con educazione e decoro civile, tutti contemporanei.
Vita sedentaria è uno di quei lavori nati nei periodi in cui le difese immunitarie (quelle che sottendono al controllo del pensiero creativo) sono allentate da qualche trauma, da qualche stanchezza contingente. Il regime di cattività, imposto dalla quarantena, ha creato il microclima amniotico in cui quest’opera è venuta al mondo: l’indolenza, la lentezza, la consapevolezza (o l’illusione) che non si debba davvero più render conto a nessuno: ‘generato, non creato, della stessa sostanza del nulla’. Eppure in questo microclima incline al nichilismo, dicevo, il quadro come terminale sensibile si dimostra più generoso dell’artista e finisce con il restituire la sindone della condizione umana in ogni caso. Questa volta ha restituito le forme di una scabra sedia graffita dallo stridere di un chiodo su uno schermo spezzato di ardesia (una vecchia lavagna che da tempo attendeva il suo momento). Il quadro mi ricorda che a questo corredo di stasi e di attesa sarà legata la vita di noi tutti e fa sgorgare dal mio sotterra dialettale un antico proverbio siciliano: “Malannu ca vinisti, piglia la seggia e sedi” (Malanno, ora che sei arrivato, prendi una sedia e accomodati). A fare da controcanto nell’altra metà del pannello, come nella dinamica opposta e separata di due emisferi cerebrali, è la texture liquida e schiumosa, caotica ed erotica, dei miei colori. Non avrei potuto fare questo quadro lapidario se non in questi giorni, perché la pittura, come la carta da gioco, sa dove deve andare.

VLADY

Vlady Art, Mascherina egoista, 2020

Vlady Art, Mascherina egoista, 2020

La Dollar mask si sposa molto bene con la recente definizione di “mascherina egoista” [sempre più diffuse in questi giorni, le mascherine FFP 2 e 3 sono dotate di una piccola scatolina bianca o rossa sulla parte frontale: una valvola ma non un filtro, che le ha fatte definire “egoiste” in quanto aiuta la respirazione ma non filtra le emissioni proteggendo chi la indossa ma non gli altri, N.d.R.]. Questa foto è di febbraio, avevo il bisogno di averne una ma non l’ho trovata in commercio. Ho saputo che alcune mascherine, già prima delle indicazioni date dai governi sulla necessità di indossarle, si trovavano sul mercato nero e online a prezzi esorbitanti. Un dollaro sulla bocca quindi è quanto di più simbolico mi è venuto in mente per sostituirla a quella vera. Anche la Mascherina ovo-sodo-sado-maso è frutto della medesima frustrazione. Poi un artista tende a fare metafora, esorcizzare, toccare e provare tutto. Come fanno i bambini, porsi qualcosa sulla faccia e vedere che effetto fa (se si vede attraverso o che aspetto si assume), è comune per chi come me vive sempre sopra le righe.
Io abito in Svezia, uno dei pochi Paesi d’occidente dove non ci sono restrizioni sulle libertà individuali. Nonostante tutto, si sta provando a non passare mai al dovere imposto per legge. Qui è qualcosa che non verrebbe preso bene e sarebbe una decisione senza precedenti. Nonostante questa apparente libertà, nulla è più come prima. Il primo ministro e il re hanno invitato tutti a evitare ogni spostamento non necessario. Qui questi avvisi hanno il “gusto” di un ordine ma di ordini non si parla mai. Ci siamo così dati delle regole da soli, viviamo sospesi in questo stato di limitazioni all’interno della libertà, in cui ti si dice che nulla ti è vietato ma mancano voli aerei, navi ed eventi. Hanno chiuso cinema, teatri, negozi e posti di lavoro. Siamo liberi di fare quello che ci rimane di fare.

LINDA RANDAZZO

Linda Randazzo, Il trionfo della Morte, olio su tela, 200 cm x 200 cm, 2018

Linda Randazzo, Il trionfo della Morte, olio su tela, 200 cm x 200 cm, 2018

Il mio Trionfo della Morte in chiave contemporanea è chiaramente un memento mori. L’iconografia è ripresa dall’opera omonima, conservata nella Galleria regionale di Palazzo Abatellis a Palermo. Affresco di anonimo, di 600 × 642 cm, staccato da Palazzo Sclafani, datato circa all’anno 1446. Il mio trionfo però è ambientato sulla “spiaggia dei palermitani”, Mondello, luogo balneare frequentato da tutte le categorie sociali di cittadini, su cui la morte sfuria indiscriminatamente senza la tipica divisione delle caste sociali (presente invece nell’opera quattrocentesca). Nell’opera del Quattrocento le varie categorie sociali reagiscono in maniera differente alla presenza della Morte a cavallo, qualcuno la scansa, qualcuno la invoca e tutti ‒ principi, vescovi, povera ‒ – ne sono investiti. Sulla spiaggia di Mondello, i bagnanti seguono uno schema di distribuzione medioevale delle figure, prive di proporzioni, fonte di luce univoca, prive di prospettiva e soprattutto completamente indifferenti alla presenza del cavaliere scheletrico che li assale. A Mondello le persone nude, con i loro corpi già destinati a essere cadaveri, sono tutte uguali, livellate socialmente e tutte esattamente e ugualmente indifferenti. La società contemporanea ha abolito la destinazione mortuaria della vita, la morte è un tabù, non è un monito per vivere meglio. Oggi, aprile 2020, dobbiamo ringraziare una pandemia virale per averci ricordato quanto sia importante la vita, significata appunto dalla presenza della morte.

DESIDERIA BURGIO

Desideria Burgio, Ritratto di Linda Randazzo sul suo letto, dimensioni variabili, foto digitale BN, 2015

Desideria Burgio, Ritratto di Linda Randazzo sul suo letto, dimensioni variabili, foto digitale BN, 2015

Ho realizzato questa foto, Ritratto di Linda Randazzo sul suo letto, a quattro mani con la pittrice che espone il suo autoritratto come in un’azione performativa. Avevo spesso lavorato su scene di interni, dove il protagonista umano non veniva mai rappresentato. In questo caso Linda viene eccezionalmente fotografata in bianco e nero nella sua camera, sul letto ‒ luogo dove si nasce, si vive e si muore ‒, volutamente con un ritratto pensato come maschera funeraria. Nella poetica di entrambe c’è un tratto comune: la rappresentazione di un diario privato che attinge la sua linfa dal passato e attraverso l’intima e celere assimilazione si proietta nel presente. La maschera mortuaria è un ovale autoritratto con la posa tipica della melancholia mentre il corpo è disteso come in una deposizione. Chi ha guardato la morte negli occhi avrà forse più consapevolezza nell’incontrarla nuovamente.

ANGELO DI BELLA

Angelo Di Bella, Mary at the foot of the Holy Cross, olio su carta, 42 x 29 cm, 2020

Angelo Di Bella, Mary at the foot of the Holy Cross, olio su carta, 42 x 29 cm, 2020

Il dolore è il tema centrale di questi due piccoli dipinti su carta. La pittura diviene in questo caso protagonista, non come una forma di trascendenza, ma come traccia e “impronta” dell’atto doloroso che pervade l’uomo e lo trasfigura, in questo momento storico così tragico e addolorato, in quest’epoca che come mai prima ha voluto celare, annichilire, svuotare, il dolore dell’animo umano del suo “sacro significato”, nascondendo ed emarginando tutto quello che come orrida visione vanificasse la bellezza edulcorata dell’idiozia, nella arti, nella vita, nel quotidiano. L’impronta dolorosa dell’arte, invece, può avere un potere immenso che non può essere celato, perché ha a che fare con la nostra liberazione.

SIMONE SAPIENZA

Simone Sapienza, Uccelli, Charlie surfs on lotus flowers, AKINA Books, 2018

Simone Sapienza, Uccelli, Charlie surfs on lotus flowers, AKINA Books, 2018

Le opere che abbiamo scelto nascono da un reportage che ho realizzato in Vietnam. Il primo è un dittico che fa mancare l’aria, di animali in cattività ‒ tema molto attuale dopo la diffusione del virus, probabilmente originata in un mercato cinese non molto dissimile da quelli vietnamiti. Il venditore di fiori, invece, è una foto che respira.
Circa quarant’anni dopo la vittoria dei Vietcong contro l’America, il Vietnam ha oggi cambiato radicalmente sogni e ambizioni. Resa forte da una popolazione giovanissima e da una nuova generazione piena di energia, l’economia del Vietnam detiene uno tra i più alti tassi di crescita al mondo. Tuttavia, dietro questa illusoria libertà di mercato, il governo comunista detiene ancora il potere politico assoluto. Partendo da una profonda fase di ricerca a livello storico, il progetto è una documentazione metaforica della società vietnamita contemporanea, con un’attenzione particolare su Saigon, ultima città conquistata dai Vietcong e oggi motore dell’economia nazionale.
Le immagini scattate per le strade di Ho Chi Minh City nel 2017, di venditori ambulanti di pesci rossi e uccelli, rievocano in me una sensazione di claustrofobia e di mancanza di libertà principalmente legate all’instaurazione della dittatura comunista in Vietnam, ma non molto diverse da come molte persone possano vivere questo lungo e indefinito periodo di quarantena. Un venditore di fiori per le strade di Ho Chi Minh City nel 2016 nei giorni del Têt ‒ il Capodanno cinese, durante il quale tutte le famiglia vietnamite si ritrovano per celebrare insieme e le città si svuotano, lasciando spazio ai turisti e alle temperature torride ‒ torna a casa a immergersi tra i fiori.

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Mercedes Auteri

Mercedes Auteri

Mercedes Auteri (Catania, 1977) ha conseguito un Dottorato di ricerca in Storia dell'Uomo, delle Società e del Territorio, con tesi storico-artistica, e un Master in Turismo Culturale Sostenibile e Comunità Locale, con tesi in Museologia. Ha frequentato la Scuola Interuniversitaria…

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