Giuseppe Penone, artista dell’Antropocene

Ultimi giorni per visitare la mostra di Giuseppe Penone nel Complesso monumentale di San Francesco a Cuneo. Un viaggio alla scoperta dell’eco-logia che caratterizza da sempre l’opera dell’artista piemontese.

Giuseppe Penone (Garessio, 1947) è profeta in patria: dopo le grandi opere installate alla Reggia di Veneria e l’arco trionfale posto davanti all’ingresso della Galleria di Arte Moderna di Torino, anche il Castello di Rivoli accoglie una sua opera monumentale voluta dalla direttrice Carolyn Christov-Bakargiev, grande studiosa dell’Arte Povera (presto uscirà un’edizione rinnovata della sua monografia dedicata al movimento fondato da Celant nel 1968) ed estimatrice del lavoro di Penone, al quale aveva dedicato il centro della sezione The Brain, cuore della sua dOCUMENTA 13, nel 2012.
L’opera del Castello di Rivoli, Identità (due alberi specchianti posti uno sull’altro e fatti di materie differenti), annuncia idealmente la prima mostra personale, dal titolo Incidenze del vuoto, nella terra natale dell’artista di Garessio, in quel Complesso monumentale di San Francesco a Cuneo che accoglie nella grande navata, nell’abside e nelle cappelle laterali dell’edificio medievale una selezione di poche fondamentali opere (alcune monumentali) di Penone incentrate sul vuoto, tra cui Matrice, Suture, Gesti vegetali e alcuni disegni preparatori in cui il corpo umano è innestato su tronchi d’albero. Curata dalla direttrice di Rivoli con il sostegno della Fondazione CRC, questa mostra offre uno spunto per riflettere sulle incidenze ecologiche e filosofiche (con riflessi impliciti su etica e politica) dell’operato di uno degli artisti più “green” della storia dell’arte.

PENONE E L’ANTROPOCENE

Se si osserva la mole crescente di mostre in Italia e all’estero negli ultimi anni, si può affermare che è in atto una certa Penone-mania, da intendersi malgrado il successo personale indiscusso dell’artista, ed essa si fonda sul fatto che l’artista di Garessio da mezzo secolo sostiene con la sua arte una poetica ecologista che dimostra proprio oggi, nella nuova era geologica dell’Antropocene, un’attualità che va oltre gli steccati dell’arte e diventa messaggio universale. Ma su cosa si basa questo messaggio?
Per Penone, in mezzo secolo di attività, poco è cambiato; “la volontà di un rapporto paritario tra la mia persona e le cose è l’origine del mio lavoro”, scriveva nel 1969. Ma mezzo secolo fa il contesto era ben diverso da quello attuale: Germano Celant, il capo della rivolta, indicava il nuovo fine dell’artista come un “relazionarsi al contesto cercando di interiorizzarlo dialetticamente”. Era un modo nuovo di porsi e di esistere, che assorbiva forza dall’insorgere di un’epoca di grandi utopie, tra le quali quella ecologica era la più sentita da un giovane scultore che aveva deciso di ripensare l’atto e il senso dello scolpire, giungendo alla verità che anche l’atto del respiro è un gesto scultoreo poiché incide l’aria del mondo.
L’estrema povertà dell’artista, i cui gesti sembravano ridotti all’essenziale, corrispondeva alla sua nuova ricchezza, una ricchezza di mondo che entrava tutto intero dentro le maglie dell’arte. Nel mondo di oggi, in un’epoca di inquinamenti globalizzati, quei gesti come il respiro (o il cibarsi) assumono un significato nuovo e tutto da riflettere. Penone lo ha già fatto da tempo. L’arte di Penone si sta dunque diffondendo nel mondo perché sorge da un punto vista altro, da sempre attento all’intelligenza della natura, ancor prima che le teorizzazioni di Greta, il climate changing e il riscaldamento globale diventassero così attuali e urgenti da renderlo naturaliter un profeta della nuova necessaria relazione che l’uomo deve imporsi con la natura: non più una relazione di sfruttamento ma di necessaria presa in cura; non più una relazione infantile di continua richiesta ma una più matura e accudente consapevolezza di essere noi, ormai, i “genitori” di una madre terra e di un ecosistema globale invecchiati rapidamente.

Giuseppe Penone, Identità, 2017. Photo Archivio Penone

Giuseppe Penone, Identità, 2017. Photo Archivio Penone

LA NATURA E L’ARTE

Dopo aver fatto il giro del mondo, l’arte di Penone torna a casa, in quella provincia dove ci sono i boschi da lui amati e dove si reca per scegliere quegli alberi che, seppur sacrificati, assumono lo stato di opere d’arte che oggi assumono la valenza di monumenti della nuova sensibilità globale tesa a riconsiderare il nostro modo d’esistere su un pianeta divenuto fragile come mai si sarebbe sospettato potesse essere, confermando come il mistero dell’esistenza riguardi non soltanto l’essere umano ma, come tutto il lavoro di Penone testimonia, l’intero regno del senziente, del vivente e perfino del minerale, del geologico. Se nel Novecento siamo giunti faccia a faccia con la gettatezza che connota il nostro essere al mondo, di cui parla Heidegger nel 1929 in Essere e Tempo, un secolo dopo siamo testimoni di come questa finitudine sia propria anche di ogni “cosa” che è e non riguardi soltanto l’essere umano, il quale al momento sembra poter ancora disporre, come sua natura intrinseca, di una progettualità che pertiene solo a lui e che lo rende per questo responsabile (e oggi perfino custode) delle sorti della Natura.
Sembrava incredibile tutto ciò, eppure ci siamo arrivati. Secondo Penone: “La concezione del tempo che hanno una farfalla, un fiore, un albero, un animale, un uomo, una pietra, una montagna, un fiume, un mare, un continente, un atomo, produce la varietà infinita del pensiero e delle forme dell’universo”. È il 1972 quando sostiene ciò, e lo fa in un mondo che è molto diverso da quello attuale. Eppure centra un punto nevralgico: ciò che accomuna l’uomo (e la sua arte) alla natura è la temporalità come modo di essere nel tempo. Le diverse temporalità producono differenti forme-pensieri o pensieri-forme: non è possibile disgiungere l’uno dall’altra: il pensiero è sempre pensiero di qualche cosa, di una forma, e viceversa. Ma nell’Antropocene, “anticipato” dall’estetica di Penone, si ribalta il rapporto kantiano tra arte e natura. Se per Kant, attraverso il genio la natura dà le regole all’arte, per Penone è il contrario, ovvero è l’arte che, attraverso l’artista “povero” (il genio è ricco, quanto ancora si potrebbe dire di questa povertà dell’artista dell’Antropocene…), offre le sue regole alla natura nel doppio senso, soggettivo e oggettivo, dell’aggettivo possessivo. Le regole proprie dell’arte sono racchiuse nella sua essenza, che è quella di aprire un mondo, come vuole Heidegger, o di aprire mondi, come declina la vulgata tutt’altro che gratuita di Gianni Vattimo. Ma le regole che essa dona alla natura, e che la natura recepisce in questo momento storico puntuale, sono quelle comprese nella (nuova) essenza della natura stessa: essere (potremmo dire) un orizzonte finito, un principio di creazione non assoluto ma finito (come l’artista), una temporalità capace ancora di accogliere altre temporalità più circoscritte ma non più in grado di essere un modello di infinitezza e quindi di principio generatore assoluto, incondizionato. In tal mondo, solo guardandola con gli occhi di Penone, la natura accoglie in sé il senso (e le regole) dell’arte (povera); soltanto così il marmo non è materia scultorea ma già scultura, opera, esso stesso, poiché ottenuto attraverso la sedimentazione e la compressione di scheletri di piccoli animali avvenute in milioni di anni di lavoro silenzioso. Eppure quella stupefacente quantità di tempo e di lavoro che sono “penetrati” nella materia offrono a noi, se decidiamo di vederli, di capire ciò che Penone ha capito da alcuni decenni: “è ora che l’immobilità diventi una condizione ovvia e attiva”.

IL RUOLO DELL’ARTISTA

Ne consegue che se la natura si comporta come un artista, allora l’artista può comportarsi come la natura. Lo scultore, immobile ma respirante, attivamente coglie la fusione del suo corpo, e del suo respiro come prodotto artistico, con la natura che lo accoglie e che accogliendolo (per il semplice fatto che egli esiste) viene da esso modificata-scolpita a sua volta… Non c’è più differenza di qualità ma soltanto di grado: la dolorosa lacerazione della continuità tra uomo e natura (tra esistenza e arte, tra cultura e spontaneità) si cicatrizza sul percorso d’acqua che Penone decide di “mimare” in un’opera aurorale come Essere fiume. In quest’opera “bifronte”, ipotetica quanto conturbante, l’artista “ripete” il gesto del fiume copiando le forme che il corso d’acqua ha scavato nei secoli sulla pietra; così facendo egli fa venire al mondo la verità stessa dell’essere fiume-scultore, ovvero di una natura che non è più un concetto astratto che definisce un insieme di cose, ma un principio trasformatore-generatore che costantemente informa di sé la materia minerale inanimata, così come ogni essere animato.
A ciò si aggiunga che, arrivati a questo punto della storia del mondo e del senso dell’essere (Heidegger), la stessa natura può considerarsi non più (o non soltanto) come insieme di oggetti misurabili e leggi di causa-effetto (come esigono il positivismo e lo scientismo), ma va intesa come quella legge a cui ogni essere è sottoposto e che prescrive l’ex-sistere, lo stare fuori, l’essere esposti, con tutte le gioie e le complicazioni del caso. Una tale condizione sembrava specifica solo dell’esistenza umana, in balia del destino, del fato o della natura indifferente di tradizione leopardiana. E invece ora scopriamo che anche la natura, sulla quale stiamo incidendo in un modo che potrebbe essere presto irreversibile, sta fuori esposta alle intemperie che l’uomo crea, anche suo malgrado per il semplice fatto di esserci e operare in essa.
Oggi si può sostenere che quel “rapporto osmotico tra pensiero e materia” di cui parla Celant riferendosi all’Arte Povera, e che vale così bene per Penone, non debba più intendersi come finalizzato a “uscire dall’alienazione”, da quello stato d’inferiorità economica e metafisica che nel 1969 era il nemico principale del rivoluzionario. Oggi, dopo che la fine della storia teorizzata dal filosofo Francis Fukuyama non è avvenuta e che il suo ultimo uomo (globale, democratico e liberale) sembra messo in discussione dalla ribalta dei regimi illiberali e dalle frenesie interne, non ancora ben definite, di quella moltitudine su cui Michael Hardt e Antonio Negri contano per uscire dall’impasse dell’Impero, il messaggio (sulla scultura, ma non solo) di Penone resta chiaro e ben valido: “Racchiudere il pensiero nelle cose è possibile con l’azione”. Il messaggio riguardava la scultura, ma a riconsiderarlo in questo 2020 così denso di nuove consapevolezze le sue parole possono fondare non soltanto un’estetica, ma con essa anche un’etica ed un’eco-logia, ovvero una logica, un discorso sull’ambiente inteso non più soltanto come la generica, immensa e inesauribile casa dell’uomo ma ormai (kantianamente) come condizione a priori della possibilità della vita stessa. Una condizione che, pur pensata da sempre come incondizionabile (il mondo era qualcosa di oggettivo al di fuori del soggetto e tipicamente estraneo o indifferente a esso), si è svelata nel volgere di pochi decenni come soggetta all’operato e ancora prima al pensiero dell’uomo, alle sue categorie che lo hanno giudicato ora ferino e indomabile, ora palcoscenico neutrale, ora magazzino di risorse inesauribili capace di sopportare qualsiasi urto. Oggi sappiamo che non è più così. Per questo l’arte di Penone, un po’ come accadeva a Peter Sellers in un film emblematico come Oltre il giardino, diventa capace di dire qualcosa che va oltre il suo dire e che ci impone di pensare ancora: la natura può essere condizionata dall’uomo, e lo è nel modo più pericoloso fintanto che mancherà una vera filosofia naturale all’altezza dei nuovi compiti che la storia (dell’essere) sta rapidamente affidandoci.

Giuseppe Penone, Matrice, 2015. Photo Archivio Penone

Giuseppe Penone, Matrice, 2015. Photo Archivio Penone

UN ERMENEUTA DELLA NATURA

Anche per questi motivi, la mostra curata da Carolyn Christov-Bakargiev è significativa, specialmente se letta in profondità, alla ricerca dei principi che danno forma al pensiero di Penone: un artista esposto al compito di pensare la natura attraverso l’arte e la scultura. A differenza di Joseph Beuys, che è stato un mistico e un utopista, Penone è un ermeneuta della natura (si può esserlo? Alla filosofia il compito di sondare un tale paradosso). In un’era geologica nuova e inattesa, come quella che si sta schiudendo sotto i nostri occhi simile a una voragine aperta da un terremoto imprevisto, Penone non fa che continuare il suo lavoro di sempre, mantenendo il suo rapporto con le cose della natura (alberi, foglie, marmi, cervello, ecc.) dal punto di vista privilegiato di un antico filosofo-poeta-artista naturalista in grado di cogliere e di dire la temporalità estremamente lenta e solo apparentemente imperitura della natura. La sua “ermeneutica” è amata dal pubblico perché nelle sue opere appare in modo evidente la forza di questo pensiero che diventa tanto più accessibile quanto più aumenta l’emergenza ecologica, nel senso innanzitutto dell’emergere di un nuovo discorso sull’ambiente che ci impone di rivedere il nostro pensiero circa l’essenza della natura e il nostro rapporto con essa. Un pensiero a cui siamo chiamati da un’apertura del senso dell’essere che è il nuovo inedito modo di farsi mondo del mondo. Un pensiero in cui possibilmente l’eco-nomia, (da οἶκος: dimora, e -νομία: governo) possa finalmente intercettare e dialogare con l’eco-logia in un discorso su quella dimora che il nostro mondo è diventato nella sua interezza e fragilità.

Nicola Davide Angerame

Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati

Nicola Davide Angerame

Nicola Davide Angerame

Nicola Davide Angerame è filosofo, giornalista, curatore d'arte, critico della contemporaneità e organizzatore culturale. Dopo la Laurea in Filosofia Teoretica all'Università di Torino, sotto la guida di Gianni Vattimo con una tesi sul pensiero di Jean-Luc Nancy, inizia la collaborazione…

Scopri di più