Da Kounellis alla sperimentazione. Intervista a Carlo Rea

Gallerja, Roma ‒ fino al 25 maggio 2019. Parola a Carlo Rea, protagonista della mostra curata da Bruno Corà negli spazi romani di Gallerja. Spaziando dall’amicizia con Kounellis al lavoro sulla materia.

Negli spazi di Gallerja, elegante punto del contemporaneo romano, prende corpo SENSO, una mostra materica e insieme rarefatta di Carlo Rea (Roma, 1962), curata da Bruno Corà. Un equilibrio sottilissimo lega gli impasti di gesso, la ceramica, il ferro in un sincretismo elementare, la molteplicità dei linguaggi è accordata sulla nota della semplicità del gesto e del colore, sulla linearità delle forme. La manipolazione della materia è un atto tutt’altro che di sofisticazione, al contrario i lavori raccontano un’operazione di modellatura appena accennata; le tele evocano un processo di creazione rovesciato, nel quale non è la mano dell’artista a stabilire la fisionomia delle figure, ma è invece la materia stessa ad autodeterminarsi, lasciando emergere la propria casuale e spontaneamente armonica forma naturale. Il richiamo è a quello Spazio inteso come somma delle categorie assolute di Tempo, Direzione, Suono, Luce che ha dettato legge nel secondo dopoguerra, declinato con grande dolcezza. Inaugura l’allestimento l’installazione Omaggio a Jannis, nella galleria che undici anni fa apriva i battenti proprio con una potentissima installazione di Kounellis. Rea dedica all’amico e maestro una struttura in ferro (Kounellis l’avrebbe voluta non saldata) con innesto di una materia-pensiero in terracotta.
Romano di nascita marchigiano d’adozione, di ritorno da Londra dove ha inondato la galleria Tornabuoni di lavori sonoro-plastico-visivi con la mostra Forms and Harmonies, Carlo Rea si racconta.

La tua personale negli spazi di Gallerja si intitola SENSO. Un termine polisemico, immagino non casuale. Dicci qualcosa sul “senso” di questa scelta.
SENSO è una parola che da sola raccoglie e racconta il mio lavoro e la mostra tutta. Cercavo un’espressione per descrivere la continuità delle diverse ispirazioni che hanno dato vita a questi lavori, e ‘senso’ concentra in sé tutti i significati che cercavo, il senso del procedere (la direzione), il senso della logica (il significato) e il senso diciamo epidermico (i sensi). L’aspetto intellettuale e l’aspetto fisico è molto importante che siano percepiti in dialogo nel lavori che espongo. Suggerisco sempre una molteplice lettura.

Carlo Rea, Spore (azzurro), 2018-19, particolare

Carlo Rea, Spore (azzurro), 2018-19, particolare

Il tuo lavoro è il frutto di diversi linguaggi. Nasci musicista, hai frequentato l’ambiente e ti sei lasciato ispirare da Berio. Ancora oggi la componente sonora è molto forte, non solo nelle installazioni video, ma anche nei tuoi lavori plastici. Sembra che il ritmo e il tempo abbiano un ruolo primario. È così?
La fusione dei linguaggi mi sta molto a cuore, negli ultimi anni sto cercando qualche risultato che renda evidente con naturalezza l’aspetto doppio, ma insieme unico, dello spazio e del tempo; la necessità di rappresentare questa condizione nel modo più semplice possibile prende corpo soprattutto nei lavori plastici. Anche la materia ha un suono. Il suono è per me la vibrazione, quell’alito vitale che è fondamentale nel rappresentarsi. Come il corpo ha un ritmo, così l’opera ha un ritmo, il colore ha un ritmo: il tempo del farsi del lavoro. I lavori non sono statici, ma conservano e sono in grado di esprimere il processo del divenire.

Era il 1997 e Vincenzo Trione definiva la materia dei tuoi lavori come “i materiali della quotidianità degli uomini”. Questa qualità dei materiali è ancora un valore per te?
È importantissima. I materiali sono sempre la rappresentazione di un processo del divenire; per esempio, il nero (che ho utilizzato anche in uno dei lavori esposti) è ottenuto dalla carbonizzazione di ossa animali, si chiama nero d’avorio. Oltre quel nero in natura non si può andare, questo riporta il pensiero anche a un tempo, a un passato in cui quel colore era altro. Dal colore affiora il momento e nello stesso tempo il colore affiora dal momento. Così la ceramica, il gesso sono estremamente preziosi ma sempre memori del rapporto con gli uomini.

Bruno Corà cita Lessing pensando al tuo lavoro, per contraddirne la differenziazione di pittura, scultura e architettura (arti dello spazio) dalla musica (arte del tempo). All’ultima personale da Tornabuoni a Londra hai dato il titolo di Forms and Harmonies. L’arte sembra aver insomma ormai assimilato l’abbattimento dei generi, ma siamo davvero così liberi? Come hai trovato l’ambiente internazionale nella tua esperienza rispetto a entusiasmo, innovazione, vita artistica?
Londra è una città notoriamente cosmopolita, un centro per l’arte contemporanea, un punto di arrivo e di coagulo delle esperienze di tutti quanti gli artisti. La caratteristica che riconosco in città come Londra è quella di saper essere un centro di raccolta. Io sono molto legato a Roma, tanta parte del percorso della mia crescita formativa è legato alla città di Roma, e questo in una dimensione che arriva prima di quella del riconoscimento, del mercato, e investe la sfera dell’ispirazione e dell’identità. Il canto delle pietre, il canto dei muri, quello che viene dal profondo della terra è quello che ancora mi tocca veramente. Anche esporre ora, a Gallerja, che ha ospitato Kounellis, uno dei miei grandi maestri, con una potentissima installazione, mi motiva e mi dà degli stimoli. Ritengo Londra un ottimo luogo di rappresentazione.

Carlo Rea, Omaggio a Jannis, 2019

Carlo Rea, Omaggio a Jannis, 2019

In mostra hai due lavori con una dedica esplicita, una chiama in causa tuo padre, Ermanno Rea, giornalista e scrittore, e l’altra omaggia Jannis Kounellis. In che misura questa mossa rapporta il tuo lavoro alla Storia?
Kathmandu 1960 (una foto di mio padre) e Omaggio a Jannis sono due lavori molto diversi strutturalmente, ma entrambi chiamano in causa i pilasti del mio lavoro e della mia crescita. Le immagini prodotte da mio padre, per esempio questa, sulla quale sono intervenuto, ‘un uomo che cammina sull’acqua’, decretano la formazione del mio senso estetico. Kounellis, che ho avuto la fortuna di frequentare negli ultimi anni della sua vita, è stato un grandissimo maestro, un modello, non tanto per l’opera in sé della sua ricerca (presente nel lavoro esposto con il concetto di corpo-mente da lui studiato), ma per l’esempio esistenziale, per l’approccio al modo di fare e di creare. L’atteggiamento nei confronti dell’essere umano, il valore dell’essere artista nel contesto sociale di oggi. L’eredità di Jannis ritengo sia questa. Ed è più attuale che mai.

C’è una domanda, che ti ponevi all’inizio del tuo percorso, alla quale a questo punto della tua carriera pensi di poter rispondere?
A te decifrare la domanda, quella che condivido con te è la risposta: Lavorare. Lavorare non significa solo stare con le mani in pasta, ma anche progettare il proprio pensiero. Decidere. Non avere paura di intraprendere strade che potrebbero rivelarsi dei vicoli ciechi. Come l’acqua sceglie il suo percorso, magari anche a tratti arenandosi in anfratti che non portano da nessuna parte, continuando a scorrere, trova al fine la via.

Ofelia Sisca

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