La prima impressione che coglie durante la visita della mostra di Ramin Haerizadeh (Teheran, 1975), Rokni Haerizadeh (Teheran, 1978) e Hesam Rahmanian (Knoxville, 1980) è quella di un profondo eclettismo. Un senso di disagio che può sfociare nel fastidio. Perché l’idea romantica dell’artista resta dominante anche qualora si tratti di un trio d’artisti – e il pensiero va a un’unità d’intenti che deve tradursi in uno stile coerente e riconoscibile. E invece i tre iraniani di stanza a Dubai non fanno nulla di tutto questo, anzi complicano scientemente la questione: coinvolgono assistenti e colleghi nella produzione dell’opera, che non significa mera costruzione ma ideazione e realizzazione; ampliano cioè il trio, lo rendono un’entità aperta, porosa, ricettiva. La curatrice Abaseh Mirvali puntualizza chiamando in causa il termine farsi ‘dastgah’ (dispositivo, macchina, matrice melodica): “Diventando dastgah, gli artisti compiono un atto continuo e ripetitivo come se fossero macchine pittoriche, il cui corpo è stato coperto da un certo numero di oggetti”. Il risultato è un caleidoscopico susseguirsi di videoanimazioni e nature morte create con oggetti storici Fluxus, album privati precedenti la rivoluzione e pavimenti ispirati a Harold Pinter, dipinti e robot. Un consiglio: non perdetevi il video Black Hair, realizzato insieme alle artiste Nargess Hashemi e Laleh Khorramian, e ai custodi (sic) Edward St. e Indrani Sirisena.
– Marco Enrico Giacomelli