La forza di vedere. Fatma Bucak a Torino

Fondazione Merz, Torino ‒ fino al 20 maggio 2018. La Fondazione Merz, in collaborazione con la Fondazione Sardi per l’Arte, ospita la prima personale italiana dell’artista turca Fatma Bucak.

Fatma Bucak (Iskenderun, 1984) è nata nel sud della Turchia, al confine con la Siria, e appartiene a una minoranza curda. Presto ha lasciato il suo Paese e, prima di trasferirsi a Londra, ha studiato all’Accademia Albertina di Torino. La mostra So as to find the strength to see, presso la Fondazione Merz, riporta l’artista nel capoluogo piemontese e insieme a lei una serie di vicissitudini personali e indirettamente politiche. Prima di parlare di identità, oblio, memoria, censura, migrazione, che pure avvolgono la produzione artistica di Fatma Bucak, bisognerebbe rivolgersi al carattere cromatico, componente essenziale della mostra e in generale del suo lavoro. L’esposizione si apre con Enduring nature of thoughts, 2018, una grande installazione composta di catini di ceramica bianca. Il suono e la disposizione spaziale sono un aspetto importante del lavoro, trasmettono un senso caotico, ma non potrebbero funzionare senza il bianco lucido che riflette e dialoga con la luce che penetra dalle grandi finestre della sala. I catini, di forme diverse, aiutano e sostengono il ritmo, confermando il ruolo secondario del suono.

Fatma Bucak. So as to find the strength to see. Exhibition view at Fondazione Merz, Torino 2018. Photo Renato Ghiazza

Fatma Bucak. So as to find the strength to see. Exhibition view at Fondazione Merz, Torino 2018. Photo Renato Ghiazza

LE INSTALLAZIONI

Nel continuare il percorso della mostra, ci si imbatte in una stupenda installazione di legno e abiti colorati, addossata alla parete. Potrebbe essere un’opera di Arte Povera ‒ siamo a Torino. Invece, anche se la città è la stessa, il contesto è cambiato, e gli artisti, soprattutto se mediterranei, sentono il bisogno di misurarsi con temi come quelli dell’identità e della migrazione. De Silencio, 2015, è un patchwork di vestiti abbandonati dai migranti nell’attraversare il confine tra gli Stati Uniti e il Messico. Segue un grosso cumulo di terra rossa e arida, dove troviamo le rose di Damasco. L’installazione Damascus Rose prevede un’operazione che vuole portare a Torino una delle varietà più antiche di rose, oggi a rischio a causa della guerra civile. La volontà di preservare la flora locale, seppur forzandola in un altro contesto geografico, avvicina Fatma Bucak alla sensibilità femminile di un’altra artista del Mediterraneo, Yto Barrada, la quale si fa autrice di un salvataggio botanico, questa volta non dalla guerra civile, ma dalla peste del turismo, che rischia di trasformare il Marocco in una futura Dubai. Come Yto, anche Fatma Bucak non fa atti di propaganda. Piuttosto a parlare sono le sue opere, supportate dall’aspetto cromatico che emerge particolarmente dai video.

Fatma Bucak, Omne vivum ex ovo – Nomologically possible anyhow, 2013. Still da video

Fatma Bucak, Omne vivum ex ovo – Nomologically possible anyhow, 2013. Still da video

I VIDEO

In An Empire of Imagination, 2016, assistiamo a una scena che parla d’identità in modo pittorico: il video mostra due uomini di spalle, in un deserto, con il sole allo zenit; le due figure coprono un orizzonte, siamo in una zona del sud della Turchia e il racconto filmico ci immerge metaforicamente nella realtà di una minoranza etnica. Un altro video, Omne vivum ex ovo ‒Nomologically possible anyhow, 2013, esposto in una sala appartata, si dipana su più schermi contemporaneamente, alternando l’offuscamento di uno schermo alla volta. In questo caso la protagonista è una donna, che in abiti bianchi sembra farsi attrice di un rito che si ripete, una narrazione di cui la donna potrebbe sempre modificarne la storia. L’iconografia è quasi medievale, la donna ha i capelli rossi, vestita di bianco. L’ultimo video della mostra è al piano interrato. Funziona proprio per il suo carattere cromatico, presentato ancora in una sala isolata, dove l’azione e i colori del video rimbombano più facilmente nella fruizione dello spettatore. Four ages of woman: Fall, 2013, è il tentativo di riscrittura della genesi umana, non più al maschile, ma al femminile. La donna è nuda, ricorda le figure femminili preraffaellite: un incarnato pallido e i capelli rossi; l’ambientazione è un paesaggio di terra e rocce scarlatte. Siamo in un mito al contrario, dove ironicamente è la donna a ribellarsi, sola protagonista della storia. La donna misura il suo coraggio con la natura, operazione finalmente non più affidata al maschile.
Opere più astratte sono una serie di lastre di zinco su cui l’artista ha impresso i segni ricavati da giornali turchi, europei, americani (Fantasies of Violence, 2017); una vasca di alluminio dove galleggiano delle lastre senza nome (342 Names, 2017-2018).  Fatma Bucak lavora con diversi media. Nello spazio esterno della Fondazione la mostra continua con l’installazione sonora I must say a word about fear, 2014-2018.
I colori del Mediterraneo, un’estetica ancora non uniformata al coolness occidentale rendono già di per sé preziosa l’opera di Fatma Bucak, al di là dei possibili riferimenti politici o della retorica artistica sulla questione dei migranti.

Sonia D’Alto

Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati

Sonia D'Alto

Sonia D'Alto

Sonia D'Alto è ricercatrice, scrittrice e curatrice. Attualmente è dottoranda in documenta studies, Kassel. È parte del comitato scientifico della Fondazione Adolfo Pini di Milano, dove, all’interno di “Casa dei Saperi” ha curato il programma biennale Nuove Utopie. Ha organizzato…

Scopri di più