Officine Grandi Riparazioni di Torino. I pro e i contro

Gianluigi Ricuperati dice la sua in merito alle OGR di Torino, da poco inaugurate con l’imponente “Big Bang”. Nonostante la bontà dell’iniziativa, coraggiosa su svariati fronti, lo sforzo non è sufficiente. E le cose da rivedere sono molte.

Ogni volta che visito le Officine Grandi Riparazioni, il nuovo centro culturale torinese meritoriamente sostenuto dalla Fondazione CRT, penso a Franz Kafka. Ci penso perché le OGR sono un miracolo. Ci penso perché le storie di Kafka sono costellate di miracoli travestiti da errori, ed errori travestiti da miracoli.
Il primo racconto scritto da Kafka è nato in una notte di insonnia febbrile nel giugno del 1912: s’intitola Il verdetto ed è la storia di un commerciante praghese di successo, indeciso se scrivere o no al suo migliore amico che è emigrato, per timore di ferirlo, essendo quest’ultimo in difficoltà economiche. Il commerciante parla dei propri dubbi al vecchio padre, che nega visceralmente l’esistenza dell’amico lontano, dichiarando di non averlo mai visto. In seguito, padre e figlio litigano violentemente e quando il vecchio genitore viene adagiato sul letto, ordina al figlio di gettarsi nelle acque del fiume, cosa che accade subito dopo. Così il suicida lascia un biglietto ai propri genitori: “Eppure vi ho amato tanto”.
Durante l’inaugurazione, iniziata il 30 settembre con una fantastica kermesse musicale lunga due settimane (chiamata Big Bang), ho pensato a Il verdetto anche perché ogni impresa umana, e ogni impresa culturale, ha, come nella storia di Kafka, un figlio ambizioso, dei genitori irascibili e disattenti, un mondo diviso tra entusiasmo e noia.
Il progetto delle OGR, impiantato in un bellissimo edificio industriale ottocentesco deputato alla riparazione dei veicoli ferroviari, ha un padre dimenticato e molti custodi entusiasti: il padre si chiama Angelo Miglietta, il professore ed ex segretario della Fondazione CRT, capace di elaborare, in conversazione con l’indimenticato Walter Santagata, nel 2008, un progetto di patrimonializzazione che permettesse con la rendita finanziaria di realizzare a Torino qualcosa di straordinariamente ambizioso: un’istituzione che non c’era, capace di mettere al mondo qualcosa di inaudito, inventare nuovi linguaggi e portare in dote le persone migliori a livello globale, attratte dal solo principio che governa le imprese culturali davvero storiche, siano esse case editrici o musei o discoteche: la volontà e la voglia di fare qualcosa per la prima volta, qualcosa che fosse capace di dialogare con la cultura mainstream, pur non essendo mainstream.
Le OGR hanno in potenza tutto ciò che serve per portarsi al livello di invenzione di cui il nostro Paese (il nostro mondo) ha radicalmente bisogno, ma non tutto quel che ho visto nei giorni del Big Bang va nel verso giusto.

Patrick Tuttofuoco, Tutto infinito, OGR Torino, photo Claudia Giraud

Patrick Tuttofuoco, Tutto infinito, OGR Torino, photo Claudia Giraud

GLI ASPETTI DA RIVEDERE

Il progetto architettonico nella media prende le forme di un bizzarro purgatorio, indoor e outdoor ‒ come hanno fatto notare diversi docenti e critici di architettura, tra cui Davide Tommaso Ferrando, sulla sua pagina Facebook.
Appena entrati, dopo un gabbiotto di polizia e security sovradimensionato, che ricorda tanto un ministero, il corpo inibito dell’utente delle OGR viene sfidato da una scacchiera di curve elevate dal pavimento, che peraltro “non possono essere calpestate”, anche se sembrerebbero perfette per lo skateboard, il parkour o altri sport urbani. Una volta penetrati nella gloriosa struttura antica, l’occhio e il gusto culturale vengono offesi con ogni mezzo necessario: lampade mostruose, Frankenstein di dettagli di Miró, Dalí e Mondrian, che suonano davvero come il corrispettivo design delle cover di Roxanne o Billy Jean eseguite dai gruppi lounge nei ristoranti o nelle sale d’attesa internazionali. Voltando lo sguardo verso le toilette, un’enorme struttura decorativa sottolinea il movimento di apertura delle porte facendo incastrare fra loro gli ingranaggi di un ipotetico orologio biologico: uomo, donna, water.
Le sale per i concerti e le mostre, invece, sono (sarebbero) esteticamente splendide, ma a causa di restrizioni credo imposte dalla Sovrintendenza ricordano un crepuscolare calvario per privilegiati, come suggeriscono le parole di una giovane avventrice che preferisce restare anonima: “A me dà la sensazione di un nauseante luogo dalle prospettive sbagliate in cui dovunque guardi c’è qualcosa fuori posto: una colonna che ostruisce la visuale, un palco sproporzionato, uno spazio enorme ma vuoto anche quando tutti i biglietti sono esauriti. Controlli di sicurezza che farebbero sentire a disagio chiunque. Per non parlare del cibo da mensa che è stato proposto al concerto dei Chemical Brothers. Se non avevi prenotato al ristorante, l’unica scelta possibile era mangiare il piatto ‘tris’ sul bancone. Rigorosamente senza bevande alcoliche”.
Aggiungiamo che non vi è traccia nei ristoranti della deliziosa tradizione di qualità culinaria urbana torinese, che sotto l’egida di Slow Food ha creato dei modelli oggi imitati ovunque: basti pensare al Consorzio, o ai Tre Galli, sistemi virtuosi che fuggono dall’assurdità dello star-system dei cuochi e portano in tavola materie prime d’eccellenza con felice, fantasiosa sobrietà.
Ma non è solo la grande cucina a mancare alle OGR: la grande assente alle OGR è proprio l’architettura. Un’idea alta e inclusiva di architettura come dispositivo della vita pubblica. Come dice l’architetto Maurizio Cilli, che negli Anni Novanta organizzò i primi tour esplorativi di questa bellissima rovina industriale, “l’intero progetto manca di tre caratteristiche necessarie per un luogo del genere: non è uno spazio modulare, non è uno spazio reversibile, non è uno spazio pubblico”. L’edificio sembra l’emblema di un tempo storico che si trova in difficoltà ogni volta che deve affrontare lo shock del futuro – Milano e le sue due grandi fondazioni, la Fondazione Feltrinelli e la Fondazione Prada, testimoniano di un’ambizione ben diversa, pur essendo realtà integralmente private, a differenza delle fondazioni bancarie, che avrebbero dovuto ingaggiare un dialogo con la comunità.

Patrick Tuttofuoco, Tutto infinito, OGR Torino, photo Claudia Giraud

Patrick Tuttofuoco, Tutto infinito, OGR Torino, photo Claudia Giraud

UNA QUESTIONE DI GENERE

La squadra che decide sulle OGR è quasi integralmente maschile, il programma artistico è fino a ora quasi integralmente maschile (eccezion fatta per le parti curate da Club 2 Club). Il consiglio di amministrazione, il direttore artistico, il presidente della Società Consortile, e tutti i consiglieri sono maschi. Non è semplicemente più accettabile lanciare un’istituzione culturale che non metta la questione di genere al centro della sua pratica quotidiana. L’ottimo Patrick Tuttofuoco, il meraviglioso William Kentridge. Persone e artisti che amo ‒ ma tutti, inesorabilmente maschi. In occasione di Artissima debutterà una mostra probabilmente molto interessante, realizzata insieme alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Come una Falena alla Fiamma, curata da Tom Eccles, direttore del Center for Curatorial Studies del Bard College di New York, Mark Rappolt, redattore capo della rivista inglese Art Review, e dall’artista britannico Liam Gillick. Altre menti eccellenti, ma, di nuovo: tutti maschi.

LA NECESSITÀ DI PUNTARE IN ALTO

Il programma musicale, curato da Sergio Ricciardone e Club to Club, è, invece, di formidabile qualità, specialmente nella punta assoluta dei Kraftwerk: anche se da un’istituzione culturale “with a budget” ci si aspetta la capacità di chiedere a un curatore brillante come lui di invitare gli artisti a un tavolo di ideazione sorgiva: voglio vedere i Kraftwerk che vengono a Torino per fare qualcosa che non hanno mai fatto prima.
Quel che davvero serve al cosmo culturale non è una nuova venue per eventi o spettacoli – anche se ogni palco che apre è di per se cosa buona e giusta – ma un’istituzione capace di dare origine a progetti nuovi. La produzione migliore finora è stata quella fatta dal Castello di Rivoli, grazie alle splendide silhouette di William Kentridge – installate tuttavia in un contesto che le svilisce. Una delle prerogative più interessanti delle OGR, poi, è certamente di ospitare un certo numero di startup. In una città che un tempo faceva invenzioni e adesso fa principalmente inventario, e con un alto numero di talenti in fuga, è sempre più urgente puntare su idee rischiose e smettere di comprare l’usato sicuro. (Bisogna dire che il Politecnico, a due passi, tesse da anni uno straordinario lavoro di incubatore di imprese innovative)
Ecco perché infine è necessario puntare in alto, per dare un senso profondo a un’operazione che altrimenti è soltanto una magnifica preda. Puntare in alto, a mio parere, significa: richiamare un gruppo di personalità capaci di generare idee (come era stato fatto all’epoca di Miglietta), possibilmente tenendo conto del problema “male only”; generare e condividere un documento di visione con la città, il Paese e la comunità culturale; mettere mano al portafogli in modo costruttivo, per garantire sostenibilità finanziaria e indipendenza dagli umori dei politici locali – vedi creare un endowment; indire un concorso internazionale per restituire un po’ di smalto progettuale a interni ed esterni; manifestare un interesse autentico e non di maquillage per la pratica cross-disciplinare. Non basta giustapporre una mostra e un concerto per far dialogare i saperi: bisogna per esempio lavorare sull’educazione, che avrebbe dovuto essere il vero Big Bang delle OGR (ci sono progetti educativi in cantiere, ma quel che mi aspetto dalle OGR è un’officina che mette al centro il tema cruciale del “life-long learning”).

Gianluigi Ricuperati. Photo Edoardo Pelucchi

Gianluigi Ricuperati. Photo Edoardo Pelucchi

IL SOGNO DELLE OGR

Io non credo che le nostre città abbiano bisogno di intrattenimento passivo, seppure di alta caratura, ma di produzione di conoscenza pubblica. Intendiamoci, come ho scritto, il fatto che le OGR abbiano aperto è comunque una benedizione. La mia speranza, da ottimista, è che l’imprevista nomina a consigliere d’indirizzo di un intellettuale raffinato come Riccardo Piaggio possa imprimere un’accelerazione a un’Officina che per certi versi ha esordito al rallentatore.
Il sogno delle OGR era invece un susseguirsi di veri Big Bang emotivi e intellettuali.
Le OGR, nel sogno, erano ripensate da un punto di vista spaziale grazie a un concorso a inviti con cinque studi in competizione, tra i quali OMA di Rem Koolhaas, BIG di Bjarke Ingels, David Adjaie, Sejima e altri.
Le OGR, nel sogno, non avevano un direttore e basta, ma un “comitato di invenzione generale” con Brian Eno, John Brockman, Alice Rawsthorn, Alex Poots, Patricia Urquiola, Hito Steyerl: rappresentanti “alti” della sola vocazione che dovrebbe avere una città come Torino, sperimentare senza sosta.
Le OGR, nel sogno, avevano trovato un’identità grazie al fatto di essere un “ostello permanente di archivi”: archivio di Italo Calvino, archivio di Gustav Metzer, archivio di Carla Accardi, archivio di qualsiasi grande personalità delle quali era cruciale acquisire le carte ‒ perché le carte sono vive e fanno vivere le istituzioni, molto più di un nome roboante sui manifesti di un caliginoso settembre. (Uno degli archivi, quello di Tullio De Mauro, è persino stato donato alla fondazione CRT qualche anno fa.)
Le OGR, nel sogno, erano un posto in cui i giovanissimi geni di ogni disciplina insegnavano agli adulti dell’establishment, zitti e in silenzio: un coro di voci della mente plurale, provenienti dal mondo tecnologico e umanistico. La scuola salvata dai ragazzini.
Le OGR, nel sogno, cominciavano il percorso burocratico per essere riconosciute, come è successo a Trieste, un Porto Franco (di terra): un perimetro fiscalmente interessante per intraprese innovative e scambi a vantaggio reciproco, rivolto ad aziende che operano lungo la dorsale della tecnologia, dei servizi, dell’intrattenimento.
Le OGR, nel sogno, erano il posto preferito dalle menti più avanzate del nostro tempo: e il posto in cui i giovani venivano a imparare i codici della relazione tra discipline. Erano stanze a basso costo per persone incredibilmente meritevoli, che avrebbero attratto altre persone incredibilmente meritevoli, che avrebbero portato altre persone di qualità assoluta. E Torino sarebbe ripartita, da quel vecchio fascinoso edificio industriale, ora infestato di poliziotti e uomini della security.
I sogni culturali sono una forma di responsabilità cui non possiamo sottrarci. Per questo chiedo ai responsabili della Fondazione CRT: avete fatto un miracolo, seppur con umanissimi errori, ma non basta. È il momento di cercare chi saprà farne ancora. Altrimenti, per le OGR, come nel racconto di Kafka, saranno i cittadini a pronunciare le fatidiche parole di congedo e malinconia: “Eppure vi ho tanto amato”.

Gianluigi Ricuperati

www.ogrtorino.it

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