Il divertimento ribelle. L’altro volto di un anno famigerato: 1978

Un anno passato alla storia per avvenimenti tragici ma che cela un fervido clima culturale: 1978 fa rima certamente con terrore e Brigate Rosse, ma anche con Raffaella Carrà, femminismo, Ugo Tognazzi e diffusa voglia di rompere gli schemi. Un anno che fu uno snodo creativo

Il 1978 è un anno che sintetizza la dualità di una decade al contempo tesa e rassicurante, paurosa e sognante, tradizionalista e all’avanguardia. I programmi scolastici oggi non l’affrontano perché non c’è tempo, ma prodotti recenti come il film Esterno Notte di Marco Bellocchio e il documentario Raffa (disponibile su Disney+), che racconta la vita e la carriera di Raffaella Carrà, possono offrire scorci di storia e cultura tanto recente quanto ancora poco assimilata; prodotti che mostrano il 1978 nelle sue contraddizioni, nel suo essere sì un momento di terrore, ma anche di voglia di divertirsi e di cambiare, in un’Italia diventata irriconoscibile. Un anno di snodo.

“Una ribellione pacifica e mai violenta, grazie a cui alcuni artisti hanno persino rimosso dalla propria mente il terrore di quel periodo, facendo dell’arte un antidoto e al contempo uno strumento”

Il rapimento Moro, le Brigate Rosse e il terrorismo

Partiamo, però, con ordine. Si parla di paura e incertezza quando si pensa al ’78 perché un’organizzazione militante ed eversiva di estrema sinistra, chiamata Brigate Rosse (BR), smosse il Paese sequestrando e uccidendo Aldo Moro, fondatore del partito Democrazia Cristiana ed ex Presidente del Consiglio dei Ministri. Tra il 1970 e il 1987, le BR intrapresero una propaganda armata contro il capitalismo, colpendo i bersagli che lo rappresentavano e svolgendo una serie di azioni terroristiche. Le vittime, infatti, spaziavano da docenti universitari a passanti, esercitando con violenza il loro ideale di Italia che a molti fa paura tutt’oggi, sebbene non sia stato mai concretizzato.
Le Brigate Rosse sono state anche altro prima di essere tali. Il cosiddetto autunno caldo, quello del 1969, funge da punto di svolta per gli operai che si riunivano in collettivi politici alternativi alle organizzazioni sindacali: la lotta armata sembra possibile così come tanto altro. La stessa lotta a cui si pensava durante alcuni incontri di un gruppo milanese della sinistra extraparlamentare, il Collettivo Politico Metropolitano (CPM), che riuniva piccoli collettivi locali di operai e studenti di Milano. E la stessa lotta armata a cui si incominciava a credere dopo la bomba a Piazza Fontana del 12 dicembre 1969, nel centro del capoluogo lombardo, e le due bombe scoppiate contemporaneamente a Roma. I responsabili di questi attentati terroristici per alcuni appartenevano ai gruppi della sinistra extraparlamentare e per altri ai gruppi di estrema destra, aiutati dai servizi segreti di Stato.
Una lotta, infine, che trova eco nei movimenti giovanili del Settantasette, che Giorgio Gaber accusa di velleitarismo nel suo spettacolo Polli d’allevamento del 1978, la cui registrazione è poi diventata un album.

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Jolande Gillot in Callaghan by Versace, Milano 1978. Photo © Gian Paolo Barbieri. Courtesy Fondazione Gian Paolo Barbieri

Raffaella Carrà e la voglia di libertà

In quel momento, confusionario e inaspettato a pochi anni dalla chiusura con il fascismo – che è ritornato d’attualità il 7 gennaio 2024 per commemorare i morti di Acca Larentia a Roma com’è usanza fare dall’anno dell’omonima strage, proprio il 1978 – si incominciò a parlare di “strategia della tensione”. Noi non la affronteremo da un punto di vista politico, ormai storico, come fece un giornale britannico che introdusse l’espressione per definire azioni mirate a provocare e incolpare la sinistra italiana, dove il partito comunista era politicamente legato al blocco sovietico. Piuttosto, parleremo della tensione dell’animo di artisti e cittadini, eccitati culturalmente a tal punto da cambiare, nel loro piccolo, la società. 
Tra questi, Raffaella Carrà fu sicuramente la più democratica, perché le sue intenzioni non erano difficili da comprendere: lei scelse il linguaggio dei costumi e del piccolo schermo. Ma che sera è, infatti, il programma televisivo con cui ritorna in Italia dopo una pausa trascorsa in Spagna. Il caso ha voluto che la Rai mandasse in onda le puntate, già registrate, dal 4 marzo al 22 aprile 1978, durante i giorni del rapimento di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse. E proprio in occasione di quel varietà, la Carrà decise di contrastare l’austerità di un’Italia pronta ad ascoltarla tra Luca, una canzone che parla del suo amore per un ragazzo omosessuale, il ritornello “Com’è bello far l’amore da Trieste in giù” e il balletto in abito da suora sexy del costumista Luca Sabatelli, che indignò la Chiesa. Banalità oggi (o no?), ma al tempo la sessualità non era un tema su cui si sensibilizzava in prima serata. Il programma venne poi chiuso con anticipo, poiché ritenuto inopportuno in quel momento. Eppure, a guardare Raffaella furono in media 27 milioni di italiani, che in un modo o nell’altro ascoltarono qualcosa di libero. 

Il 1978 tra cinema, musica, arte e design

Quella libertà d’espressione venne ricercata anche altrove dagli stessi italiani. Alle urne trionfò il diritto all’aborto, considerato reato dal codice penale fino al 22 maggio del 1978; nelle sale vinse Il vizietto con Ugo Tognazzi, il film italiano più visto di quell’anno, che affrontava in maniera sottile e attraverso la comicità l’accettazione dell’omosessualità e gli stereotipi legati a questa. Ma parlava anche di “famiglia, tradizione, matrimonio in bianco e benedizione del Papa” per nascondere il caso fittizio del presidente di un partito conservatore che muore nelle braccia di una prostituta minorenne e afrodiscendente: temi, tabù e paure che accomunano anche una parte dell’attuale classe politica. Della stessa libertà d’espressione c’era traccia nell’album Zerolandiadi Renato Zero, che cantava “sai è difficile farlo con me” nella canzone Triangolo mentre indossava una tutina gialla attillata e un trucco glitterato. Renato, d’altronde, è stato un personaggio coraggioso, che ha avviato discorsi su cosa fosse “maschile” e cosa “femminile”, provocati dall’abbigliamento e dall’atteggiamento di un uomo che ricordava, a modo proprio, gli internazionali David Bowie e Mick Jagger. Le piume e gli abiti da scena circensi, i testi provocatori e le vocine, erano espedienti per stuzzicare un pubblico che rischiava di essere assuefatto da contenuti intonsi e unilaterali, figli di una televisione che non offriva molte vie di fuga. L’arte, invece, cosa raccontava? Di monocromaticità, molto diffusa negli Anni Settanta, e di “disseminazione”, quindi della rottura del quadro in frammenti collocati su parete, come fece l’artista Pino Pinelli, tra i protagonisti della corrente che lo storico dell’arte Filiberto Menna definì pittura analitica. Una tipologia che ricorda una società, quella italiana, frammentata a causa di avvenimenti che prescindevano dal libero arbitrio, e per questo provocavano tensione. Ma il mondo dell’arte italiano, tra gli anni Settanta e Ottanta, fu travolto anche dall’Arte Povera di Germano Celant e dalla Transavanguardia di Achille Bonito Oliva, pur conservando alcune istanze della Pop Art. Ercole Pignatelli è uno dei rappresentati di questo movimento artistico, che sembra manifestare insieme all’operato di Pinelli una certa volontà di ribaltare ciò che era arte nella mente di tutti fino ad allora. Attenzione, però, a parlare di “divertimento”, perché il pittore della disseminazione e della monocromaticità dissente: “era una sofferenza essere un artista, perché si era consapevoli di essere prigionieri del monocromo e perché non si voleva essere dei semplici seguaci, ma fare qualcosa di proprio che dimostrasse la passione per l’arte contro il tempo”. 
Il design non era molto distante da quell’apparente necessità di ribaltare tutto per un mondo diverso, artisticamente parlando. Alessandro Guerriero, infatti, lo fa fondando nel 1976, insieme alla sorella Adriana, l’atelier di progettazione e design Studio Alchimia, il primo gruppo di progettisti-produttori che ha lavorato confrontandosi e che oggettivizzò le idee della post-avanguardia italiana concependo “sia uomini sia donne in uno stato turbolento e sbilanciato” e credendo nell’importanza della memoria e della tradizione, prive della retorica che in quel decennio aveva imperato. Il gruppo si è sviluppato, come si legge sul manifesto ufficiale, in “un periodo di transizione in cui [gli uomini] sono attanagliati da una paura indefinita derivante dalla perdita di molti valori un tempo considerati assoluti. Ritrovarsi è essenziale, e Alchimia lavora su quei valori considerati negativi: sulla debolezza, sul vuoto, sull’assenza di essere e sulla profondità, che oggi passano in secondo piano rispetto a ciò che è in superficie, pieno e violento, come cose da eliminare”.

I due volti del 1978

Questi esempi, che non sono eccezioni, forniscono una visione alternativa a quella lugubre del 1978. Le bombe e gli attentati, i rapimenti e le uccisioni, che rimangono elementi fondamentali nella narrazione di quella decade, hanno forse distolto l’attenzione dalla ribellione culturale contro visioni, idee e teorie predefinite. Una ribellione pacifica e mai violenta, grazie a cui alcuni artisti con cui abbiamo dialogato hanno persino rimosso dalla propria mente il terrore di quel periodo, facendo dell’arte un antidoto e al contempo uno strumento. Una ribellione presente persino nell’elezione di un ex partigiano, Sandro Pertini, come Presidente della Repubblica, rendendo il 1978 un anno da ricordare e ancora da studiare per tutto quello che ha rappresentato.

Giulio Solfrizzi

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Giulio Solfrizzi

Giulio Solfrizzi

Barese trapiantato a Milano, da sempre ammaliato dall’arte del vestire e del sapersi vestire. Successivamente appassionato di arte a tutto tondo, perseguendo il motto “l’arte per l’arte”. Studente, giornalista di moda e costume, ma anche esperto di comunicazione in crescita.

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