Cinque secoli di pittura giapponese in mostra al MAO di Torino

Narrano una storia affascinante, in cui la pittura incontra la leggerezza della seta, le opere di tradizione giapponese in mostra al MAO di Torino, provenienti dalla raccolta di Claudio Perino. E intanto lo straordinario e misconosciuto museo piemontese ha un nuovo direttore: Davide Quadrio

Nel mondo orientale, fin da tempi remoti, la seta, insieme alla carta, costituiva la trama preziosa per le arti della calligrafia e della pittura: i principi teorici della tradizione pittorica cinese hanno influenzato ampiamente la produzione del Sol Levante, con testimonianze di rara raffinatezza, come i kakemono o più tecnicamente kakejiku, equivalenti del quadro occidentale. Si tratta di rotoli dipinti e verticali, il formato più comune in Asia orientale (con montatura intessuta di seta e/o broccato, il cui lato superiore denominato “cielo” è più ampio rispetto a quello inferiore, “terra”), che si presta a diversi livelli di interpretazione seguendo il verso di lettura della scrittura nipponica, dalla parte superiore destra a quella inferiore opposta. Al loro linguaggio artistico è dedicata per la prima volta in Italia la mostra Kakemono. Cinque secoli di pittura giapponese allestita al Museo d’Arte Orientale di Torino fino al 25 aprile 2022. A offrire un punto di osservazione privilegiato è la raccolta del collezionista torinese Claudio Perino, già collaboratore del MAO, un corpus di 125 kakemono, arricchito negli anni da lacche e ventagli dipinti, che, attraverso cinque sezioni, di seta in seta, ne restituisce la fascinazione e la poetica sensibilità.

Tani Bunchō, Autoritratto dell’artista, 1832, dipinto a inchiostro su carta, 27 x 49,2 cm

Tani Bunchō, Autoritratto dell’artista, 1832, dipinto a inchiostro su carta, 27 x 49,2 cm

TEMI E TRADIZIONI DELLA PITTURA GIAPPONESE

Quanto ai temi, in scena dipinti di fiori e uccelli (kachō-ga), figure antropomorfe, animali, piante e fiori vari e paesaggi di maestri del calibro di Ogata Kōrin (1658-1716), Kishi Ganku (1749-1839), Tani Bunchō (1763-1841) e Yamamoto Baiitsu (1783-1856). “Le opereosserva il curatore Matthi Forrer, professore di Cultura materiale del Giappone premoderno all’Università di Leida, nel catalogo edito da Skira – “realizzate tra il quindicesimo e il ventesimo secolo, non sono raggruppate in ordine cronologico, e neppure in base all’appartenenza a una scuola o a una tradizione – come ad esempio Kanō, Tosa, Rinpa, Shijō-Maruyama, Nanga, Ukiyo-e, Nihonga, Yōga di influenza occidentale, suibokuga (dipinti antichi a solo inchiostro). È invece mostrata la comparazione, con l’accostamento fra pittori di diversa estrazione e tradizione nel rendere soggetti simili – nello specifico uccelli e fiori, gru, animali vari, draghi e tigri, figure, piante, paesaggi e infine cascate.

LE CARATTERISTICHE DEI KAKEMONO

Confrontandosi con tecniche e stili che non ammettevano margini di errore, l’artista doveva mostrare notevole abilità, affidando alla sola pennellata – di inchiostro o di colore se desiderava maggiore naturalismo – il contorno delle figure, accennando così le proprie visioni o il concetto sviluppato attraverso un pregevole esercizio di sintesi, ai limiti dell’astratto, in una ricerca di perfezione che poteva durare una vita intera.
I kakemono riflettono una concezione sia estetica che filosofica: per il direttore uscente del MAO, Marco Guglielminotti Trivel “esprimono impermanenza e mutazione quali elementi ineludibili (e positivi) dell’esistenza. A differenza delle nostre tele o tavole, dalla struttura rigida e fatte per essere appese a lungo a parete, i rotoli dipinti (e/o calligrafati) sono pensati per una fruizione limitata nel tempo e hanno una struttura relativamente morbida. Allestite per un giorno speciale o per un’intera stagione nel tokonoma delle case giapponesi, o sollevate qualche ora soltanto a oscillare nella brezza di un giardino cinese per essere ammirate da un ristretto circolo di letterati, queste opere d’arte partecipano del tempo e del movimento – laddove le nostre sembrano impregnate di fermezza e di continuità”.

Domenico Carelli

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