Intervista immaginaria con il Monocromo blu di Yves Klein

Se le opere d'arte potessero parlare? Abbiamo immaginato che lo facesse “IKB 3, Monochrome blue” di Yves Klein e l'abbiamo intervistato

Poco più di un paio di mesi fa. Precisamente, il 13 aprile 2020, al Centre Pompidou di Parigi. In quella data, il celeberrimo IKB 3, Monochrome blue (1960) di Yves Klein (Nizza, 1928 – Parigi, 1962) ha deciso di parlare, rispondendo alle domande di una giovane studiosa e studentessa.

Buongiorno Blue, grazie per l’inedita conversazione. Prima di iniziare, come vuole che mi rivolga a lei? Sa, è un’intervista piuttosto insolita…
Grazie a te, e diamoci del tu! Sono contento di poter fare una chiacchierata.

Sei contento, quindi ti riconosci in un’identità maschile?
Bella domanda, me lo sono chiesto spesso anch’io. Immagino di sì, ma non saprei spiegarti di preciso il perché e non ne sono neanche così certo. Suppongo di aver ricevuto molte influenze esterne seppur involontarie. Le persone non sanno che ascolto quello che dicono, che sento come si riferiscono a me. Il più delle volte mi chiamano per nome, International Klein Blue, o anche IKB 3, Monochrome blue. Capita anche che parlando di me pronuncino solo la sigla “IKB” o gli abbreviativi “Blue” e “Blue Klein”, o ancora termini più generici come ‘dipinto’, ‘opera’. È proprio quando mi chiamano ‘opera’ che entro in crisi…

Perché?
Perché a quel punto divento un’entità femminile e smetto di essere un’identità maschile. Ti dirò, in realtà poco mi importa. Non sento questa necessità impellente di trovare una precisa definizione e mi piace avere più sfumature fra cui poter scegliere. Se ti è più comodo, visto che mi hai salutato con Blue e ti sto parlando di me al maschile, fai pure finta che io sia un “lui”.

Non ti piacciono le definizioni, quindi. Non vuoi rientrare in categorie precise riguardo alla tua identità di genere. Che percezione hai, invece, di te stesso e della tua esistenza materiale?
La percezione che ho di me, concretamente parlando, credo possa essere per certi versi simile a quella che voi umani avete di voi stessi. Mi spiego: io purtroppo non ho la vostra fortuna di poter utilizzare tutti i sensi. Il tatto, per dirne uno, mi manca. Non posso toccarmi le braccia, le gambe, il volto. Non so neanche se le ho, a dire la verità. La mia fortuna, che forse voi spesso scordate di avere perché la date per scontata, è poter sfruttare al massimo la vista e l’udito.

In che modo usufruisci di questi sensi? Perché secondo te noi esseri umani spesso non ci accorgiamo della loro effettiva importanza?
È molto semplice, osservo e ascolto ma senza occhi e orecchie. Per me non è un aspetto scontato, anzi, la mia vita si articola tutta attorno a queste due capacità sensoriali. Ti faccio un esempio: voi la vostra immagine riflessa la notate solo se vi ponete volontariamente davanti allo specchio. Quando camminate per strada (così la chiamate) per la maggior parte dei casi non realizzate su quante superfici si proietta la vostra figura. Io vivo di questo.

In che senso?
Io vivo dei miei riflessi. Senza di loro non saprei neanche che aspetto ho. So di essere di forma rettangolare e di questo blu così particolare perché mi guardo anche attraverso i vostri selfie –  altro termine che ho imparato da voi.

Come vivi questa particolarità di osservarti tramite i riflessi? La trovi penalizzante?
Non avendo mai provato la sensazione di vedermi in modo differente, non saprei fare un paragone. Quello che posso dirti è che la sera, quando tutte le persone se ne vanno e rimangono accese poche luci, mi vedo riflesso sul vetro che ho davanti. La mia immagine si mischia alle luci di Parigi di notte e mi sento parte della città. Di giorno, quando, sempre dalla stessa vetrata, vedo il cielo azzurro stagliarsi sopra le case, ritrovo un po’ me stesso. È come se quel colore fosse una sfumatura della mia esistenza. Non so se è una sensazione che a voi umani è mai capitata.

Yves Klein e Lucio Fontana alla mostra delle Nature - Parigi, Galerie Iris Clert, novembre 1961 - photo Shunk-Kender © Roy Lichtenstein Foundation

Yves Klein e Lucio Fontana alla mostra delle Nature – Parigi, Galerie Iris Clert, novembre 1961 – photo Shunk-Kender © Roy Lichtenstein Foundation

Da quello che mi hai appena raccontato mi sembra che tu abbia una buona percezione del mondo che ti circonda. Ti è mai capitato di sentirti in gabbia, di voler sperimentare altre realtà, di voler uscire dalla sala in cui vivi?
Ogni tanto vedo qualche mio amico essere impacchettato con grande attenzione e partire. Alcuni fanno viaggi più lunghi, altri più corti. Quando tornano qui mi raccontano del buio accecante e della paura provata durante il tragitto di cui non si conosce la fine. Poi, però, altri mi raccontano di quanto sia stato emozionante vivere in una casa differente. Credo che sarebbe bello poter viaggiare, poter sperimentare altri mondi. Tuttavia, a volte non ti nascondo che si insinua nei miei pensieri la paura di ferirmi durante il tragitto o di non poter tornare più a casa.

Quindi tu e tuoi amici avete percezione del tempo che scorre?
Per quanto mi riguarda, ho percezione di un certo movimento incontrollabile che comporta delle conseguenze. Non saprei quantificarlo o contarlo ma, quando vedo la sala svuotarsi e il cielo scurirsi, dopo che è stato così luminoso e raggiante e dopo che la gente è venuta a trovarci, avverto questo cambiamento. È questo quello che voi chiamate tempo?

Sì, questo è quello che pressapoco noi chiamiamo tempo. Hai presente quando delle persone si fermano davanti a te e ti osservano? Ecco, anche questo “movimento” che tu percepisci lo chiamiamo tempo, a volte ci sono visitatori che si trattengono di più o di meno a guardarti.
Ah, voi umani e la vostra necessità di trovare una definizione a tutto. La vostra è una tendenza che sento incessantemente quando parlate davanti a me e non siete coscienti del fatto che io possa ascoltarvi.

E tu riesci a comprendere tutto quello che le persone dicono? Al mondo esistono tantissime lingue differenti, le conosci tutte?
Io non so neanche cosa sia una lingua. Suppongo siano i vostri svariati accenti. Per me voi parlate tutti allo stesso modo. E invece, ogni tanto vedo qualcuno così disperatamente desideroso di distinguersi dagli altri, di sentirsi… di sentirsi… non saprei dirti come.

Superiore?
Se con superiore intendi sminuire le persone per apparire migliore rispetto agli altri, allora sì, sentirsi superiore.

Hai detto che non percepisci differenze nel nostro modo di parlare e questo si ricollega a uno dei tuoi due sensi spiccati: l’udito. E per quanto riguarda la vista? Ci vedi anche tutti uguali?
Sì, io non avverto questa “differenza” di cui parli. Vedo che la contrapponi spesso all’uguaglianza, penso sia quindi più o meno il suo contrario. Ma continuo a non capire, cosa dovrei vedere di “diverso” in voi?
Mentre parliamo, però, credo di aver finalmente compreso qualcosa che mi capita spesso di sentire riguardo il mio aspetto. La gente parla del mio colore, se gli piace o meno, e si domanda perché è così tanto particolare, perché dovrei essere così tanto importante. Alcuni perfino mi insultano, dicono che non ho un senso, un significato, che sono inutile e che hanno visto altri dipinti e altre opere più belli di me.

Soffri quando senti la gente giudicarti per questo aspetto?
Sì, ci rimango male. Mi feriscono e non lo sanno. A volte vorrei poter parlare e spiegare loro che io non mi soffermo sul colore del loro aspetto, che le cose importanti sono altre e spesso non si possono vedere. La trovo una cattiveria gratuita e priva di senso. Per me siete tutti uguali, vedo che avete sfumature diverse, ma non per questo qualcuno deve potersi sentire superiore rispetto agli altri. Ho usato bene questo termine che mi hai appena insegnato?

Sì, più di quanto immagini. Hai appena detto che vorresti poter parlare con le persone. Perché lo stai facendo con me e non dialoghi con tutti?
Questa è una domanda per me molto difficile. Credo che sia perché tu hai deciso di riflettere insieme a me, credo sia perché tu ti sei interessata a cercare di capire chi sono. Non tutti lo fanno. Non ti offendere, non sei certo l’unica a interessarsi tanto. La maggior parte di voi, però, passa davanti a me e non si gira neanche. Alcuni invece mi scattano fotografie senza neanche conoscermi o aver provato a conoscermi e io, di questo, non capisco proprio il senso. Voi umani sapete essere molto crudeli senza neanche rendervene conto, siete in grado di ridurre un’intera esistenza a un semplice oggetto.

– Veronica Tremolada

Intervista elaborata nell’ambito del corso di Critical Writing I, Biennio in Arti Visive e Studi Curatoriali, NABA Nuova Accademia di Belle Arti, a.a. 2019/2020

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