Black Lives Matter ma non in Italia. Il ritardo dell’arte e della cultura nel paese

I fatti di Minneapolis hanno scatenato una ondata di proteste e la reazione del mondo della cultura. E in Italia? Lo spiega Johanne Affricot, ideatrice di Griot e curatrice culturale.

The Revolution will not be televised, cantava Gill Scott Heron nel 1971. Sono trascorsi quasi 50 anni, e le parole del poeta, musicista a attivista di Chicago risuonano come una profetica utopia di un nuovo capitolo della stessa rivoluzione, iniziata più di 400 anni fa. Una rivoluzione che negli anni si è alimentata di un’irosa sopportazione dell’oppressione e della discriminazione razziale, fino a esplodere nelle ennesime proteste, innescate dall’ennesimo martire involontario, derubato della sua biografia, ad eccezione di un’unica e familiarissima istantanea: la razza e la morte violenta. E la rivoluzione è davanti agli occhi di tutto il mondo.

“NO JUSTICE NO PEACE” LA REAZIONE DEL MONDO DELL’ARTE E DELLA CULTURA

L’8 giugno si sono tenuti i funerali di George Floyd, afroamericano ucciso dall’ex poliziotto Derek Chauvin, che per 8 minuti e 46 secondi fatali ha premuto il ginocchio sul collo dell’uomo. A tredici giorni dalla morte di Floyd, gli Stati Uniti sono tutt’ora attraversati da un’enorme ondata di proteste che ha assunto una portata globale, e che vede anche nell’abbattimento di statue simbolo di schiavitù e di regimi coloniali (anche qui in Europa e in Italia), violenza e oppressione, una necessità di fare i conti con un passato presente e pesante. Ma se la questione razziale e la violenza della polizia contro i neri sono il fattore che salta subito all’occhio, la pandemia Covid-19, che ha falciato soprattutto la comunità afroamericana in termini di contagi e decessi, ha portato ancora di più in luce il razzismo sistemico e istituzionale nel paese dell’American Dream. La sperequazione nella distribuzione della ricchezza ha effetti devastanti sulla vita quotidiana delle classi sociali più marginalizzate–dall’accesso alle cure sanitarie alle abitazioni dignitose; dall’accesso a un’istruzione di qualità all’alto tasso di disoccupazione; dall’approvvigionamento di generi alimentari salutari all’incarcerazione di massa. Va da sé che la lettura delle proteste dovrebbe quindi liberarsi di vizi spannometrici e includere più livelli nell’osservazione generale del quadro.
Eppure le reazioni del mondo dell’arte statunitense sono state un po’incerte e zoppicanti, alcune tardive, altre non pervenute, soprattutto alla luce del fatto che Floyd è morto il 26 maggio, e, poco prima di lui, altre due morti violente di cittadini statunitensi neri, disarmati e innocenti (Amhaud Arbery e Breonna Taylor) avevano scosso gli Stati Uniti e l’occidente. Il mondo scientifico, per esempio, il 10 giugno ha scioperato contro il razzismo. Laboratori, università e società scientifiche hanno aderito alla giornata di sostegno al movimento Black Lives Matter e Nature, la rivista scientifica per eccellenza, ha espresso un mea culpa che paventa cambiamento: “Nature è contraria a tutte le forme di razzismo. Ma alle parole vanno seguiti fatti”,si legge nell’editoriale. La rivista riconosce di essere “una delle istituzioni ‘bianche’ responsabili del pregiudizio nella ricerca e borse di studio, negando spazio ai ricercatori neri. La scienza è stata, e rimane, complice di questo razzismo sistemico e deve lottare più duramente per correggere queste ingiustizie e amplificare le voci marginalizzate,” continua.

griot mag george floyd piazza dl popolo black lives matter manifestazione ©lilia carlone

griot mag george floyd piazza dl popolo black lives matter manifestazione ©lilia carlone

GEORGE FLOYD: I MUSEI AMERICANI

Ma tornando al mondo dell’arte e della cultura, e prendendo come riferimento tre importanti istituzioni museali americane presenti su Instagram e altri social network, notiamo che il New Museum ha postato solo il 2 giugno il quadrato nero in segno di solidarietà (#BlackOutTuesday), accompagnato da un laconico post che recita: “Alla luce dei recenti eventi, sospendiamo temporaneamente la nostra programmazione social. Black Lives Matter”,per poi elencare una serie di organizzazioni che si occupano di giustizia razziale cui fare una donazione. Stessa storia per il Guggenheim, in letargo sociale dal 2 giugno. Condivisione del box nero e una sintetica comunicazione in cui si legge “Il Guggenheim sta osservando il #BlackOutTuesday, sta ascoltando e accompagnando il lutto della famiglia di George Floyd e delle molte altre vite perse di neri. Esprimiamo la nostra solidarietà e siamo a fianco di coloro che chiedono giustizia e la fine del razzismo.” Il MOCA di Los Angeles invece non ha lasciato alcuna lettera di addio (temporaneo), preferendo far perdere le sue tracce dal 31 maggio.
In un momento in cui gli Stati Uniti stanno vivendo una forte turbolenza interna, che è anche e soprattutto di coscienza (la rivoluzione di Gil Scott Heron di cui sopra), è impossibile non chiedersi perché il sistema dell’arte appaia disorientato, quasi spaventato, incapace di rispondere a degli avvenimenti che stanno producendo cambiamento. Lo stesso giornalista, intellettuale e scrittore americano Ta-Nehisi Coates (Tra me e il mondo, 2015), in una recente intervista con Ezra Klein evidenzia due aspetti interessanti: il primo è che in questo scenario di caos, lui vede speranza e progresso (consiglio di recuperare il suo intervento di giugno 2019 alla Sottocommissione di Giustizia della Camera dei Rappresentati legato alla richiesta di riparazioni per gli eredi degli afroamericani che furono schiavizzati); il secondo è legato a suo padre. In uno scambio di pensieri e comparazioni, il padre racconta al figlio come queste proteste siano più sofisticate rispetto a quella di Baltimora del 1968 a cui partecipò. “Bianchi e neri scendono uniti, c’è una ‘solidarietà multi-etnica’ che risuona in tante città americane.” L’immensa autrice, attivista e femminista Angela Davis (Donne, Razza e Classe, prima pubblicazione US, 1981; prima pubblicazione italiana, 2018) preferisce essere più cauta con i paragoni ma ferma anche lei su alcuni punti chiave, esposti in un’intervista su Channel 4 News: “Questo momento, questa particolare congiuntura storica ha in sé enormi possibilità che il nostro paese non ha mai visto. Non so se lo paragonerei alle proteste degli anni ’60, piuttosto è un continuum storico, e nel 2020 siamo finalmente testimoni delle conseguenze di decadi, secoli di tentativi di espellere il razzismo dalla nostra società,” riflette. […] “È un momento emozionante. Non credo di aver mai vissuto questo tipo di lotta globale al razzismo e alle conseguenze della schiavitù e del colonialismo” .

MOCA - Los Angeles

MOCA – Los Angeles

GEORGE FLOYD: LA PROTESTA DOPO LA PANDEMIA

Sarà forse che il tempo presente, con la pandemia di Coronavirus ancora fresca nelle nostre vite, stia offuscando la vista e danneggiando l’ascolto? O che i conseguenti tagli di budget dei musei, che hanno mandato a casa tante persone, stiano imponendo una ridefinizione delle priorità? Sarebbe interessante capire anche chi detta la linea di queste istituzioni, la maggior parte delle quali sono fondazioni private.
Il silenzio del Guggenheim in parte è stato interrotto dallo scontro innescato da Chaédria LaBouvier, guest curator afroamericana del museo per la mostra Basquiat’s “Defacement”: The Untold Story(2019). In un suo tweet del 2 giugno in risposta al museo, LaBouvier ha richiamato l’istituzione, denunciandola di razzismo istituzionale e ipocrisia, dopo che questa aveva condiviso il messaggio di solidarietà di cui sopra. “Get the entire f-ck out of here. I am Chaédria LaBouvier, the first Black curator in your 80 year history & you refused to acknowledge that while also allowing Nancy Spector to host a panel about my work w/o inviting me. Erase this shit”.Per continuare: “This is the same museum that made up an IMAGINARY designation of ‘first solo Black curator’ b/c they were too afraid to admit that they had not hired a Black curator to lead a show in 80 years and erased me and history in the process. They are full of shit”. Il Guggenheim, interpellato da Essence, ha offerto la sua versione che aggiusta alcune inesattezze di LaBouvier, e allo stesso tempo ammette i diversi errori fatti da quando è stato fondato, annunciando il proprio impegno a prendere misure adeguate per migliorare.
La scarsa rappresentazione dei neri americani (così come di donne e altre minoranze non bianche) nelle collezioni permanenti dei musei statunitensi è però un problema reale e sentito, e, nonostante gli sforzi più volte annunciati dal settore di procedere a una maggiore diversità, parità (che, a scanso di equivoci, si traduce anche in “qualità”) degli artisti, il processo è ancora lungo. Dai risultati di una ricerca condotta a maggio 2019 condivisa da Hyperallergic, emerge che l’85.4% delle opere nelle collezioni dei principali musei statunitensi sono di artisti bianchi, e l’87.4% di artisti uomini. Gli artisti afroamericani detengono la percentuale più bassa, 1,2% delle opere, mentre gli artisti asiatici sono al 9% e gli ispanici e latini al 2,8%.   Secondo i dati della Andrew Mellon Foundation, inoltre, i curatori neri rappresentano solo il 4% dell’intero staff curatoriale statunitense.

BLACK LIVES MATTER E IL SETTORE ARTISTICO E CULTURALE ITALIANO

Da un lato quindi abbiamo una società civile che in queste proteste appare più eterogenea e compatta rispetto al passato, che sta mandando un segnale, sia a livello locale che globale, anche se è ancora presto per delineare un quadro; dall’altro dei dati che rispondono alle nostre domande e che suggeriscono che se oggi fai dichiarazioni, quelle sono, e il lungo periodo è la temporalità a cui si devono legare.
E in Italia? Il MAXXI il 10 giugno ha lanciato tramite i propri canali social il progetto #MAXXIforBlackLivesMatter, iniziativa orientata a far conoscere il movimento Black Lives Matter, nato nel 2013, attraverso l’arte. “[…] ci inginocchiamo, per i nostri fratelli e sorelle, per rialzarci insieme, per sempre.” Leggermente in ritardo, ma meglio tardi che mai. Un gesto necessario, ma sarebbe altrettanto necessario ideare e portare avanti un calendario di iniziative permanenti, prendendo spunto dagli appuntamenti organizzati nel 2018 in occasione della loro mostra African Metropolis.
La protesta pacifica che si è svolta a Roma (e in altre città italiane) lo scorso fine settimana ha direzionato anche l’attenzione sul razzismo istituzionale e strutturale presente nel nostro paese. In una piazza del Popolo picchiata dal sole e gremita di corpi, rigorosamente in mascherina, attivisti e artisti italiani afrodiscendenti hanno infatti riportato in superficie molti temi a me cari, tra cui la dimenticata riforma della cittadinanza legata allo Ius Culturae―di cui ha parlato la professionista in cooperazione internazionale Susanna Owusu―la cui lotta negli ultimi anni, prima del suo cestinamento, è stata portata avanti dal movimento Italiani Senza Cittadinanza e altre organizzazioni. In un appassionato intervento rivolto a migliaia di persone, l’attore italiano afrodiscendente Haroun Fall ha allacciato la questione cittadinanza alla scarsa e/o totale assenza di rappresentazione e inclusione di artisti neri, della classe creativa e culturale afrodiscendente nell’industria dei media, delle arti, della creatività, della cultura.
Il nostro sistema artistico, creativo e culturale infatti rispetto a queste questioni, e osservando gli Stati Uniti e alcuni paesi europei, risulta completamente e colpevolmente addormentato da sempre, non solo a livello mainstream, ma anche più underground. Si fa fatica a comprendere come mai nessuna realtà italiana si sia mai veramente messa in discussione, abbia mai provato a cambiare lo scenario, a promuovere e favorire una rigenerazione che includa una pluralità di voci e di pensiero.
Se pensiamo al settore audiovisivo, il premio del MIBAC “MigrArti, la cultura unisce”, è stato congelato due anni fa e, seppure presentasse dei limiti almeno esisteva, e in parte contribuiva ad arricchire il panorama, ad educare. In essere c’è per fortuna il premio Mutti, destinato a registi di origine straniera, ma le risorse sono poche per essere considerato uno strumento alternativo per una maggiore emancipazione culturale e artistica del nostro paese. Oltre a questi, ad oggi non mi risulta esistano altri strumenti od opportunità culturali di rilievo per italiani con altre origini.
Partire dalle scuole primarie e secondarie è la chiave, la sfida più importante. Creare e mettere a disposizione degli strumenti che facilitino l’educazione e il progresso culturale è la base. Daniele Vitrone, in arte Diamante, rapper-educatore italiano afrodiscendente di origini brasiliane, con i suoi laboratori di musica nelle scuole di Milano sta già tracciando una linea di intervento da cui prendere ispirazione. Prima di lui, a Roma, il rapper italo-egiziano Amir Issa, che oggi troviamo a far lezione nelle università degli States, tra cui l’Università statale di San Diego, all’interno del Dipartimento di italianistica, lingua e cultura del nostro paese. Ai docenti interessa far conoscere ai ragazzi l’Italia di oggi, non più solo un paese di migranti ma una terra di approdo e di confronto per il multiculturalismo, e a tenere lezione chiamano un “italiano di seconda generazione”, uno che quei temi li conosce e che li ha vissuti in prima persona.

Il Maxxi, ph. Musacchio Ianniello

Il Maxxi, ph. Musacchio Ianniello

SPAZI DI SPERIMENTAZIONE: I CASI INTERNAZIONALI

Sono solo alcuni esempi, che si scontrano con l’amara realtà in cui versa il nostro paese. L’assenza è pesante, palpabile, e in questi ultimi cinque anni, con tutte le difficoltà immaginabili, abbiamo cercato e stiamo di cercando riempire con GRIOT questo vuoto, nato da un’esigenza personale, dalla volontà e necessità di creare uno spazio di condivisione artistica e culturale transdisciplinare in cui potersi riconoscere, che ispiri, attraverso il quale sperimentare e creare, fare network con le diaspore dell’Europa, delle Americhe, con l’Africa. Ma non basta. La mancanza di un nostro spazio fisico sul territorio spezza l’idilliaca sensazione e contentezza di aver fatto dei passi in avanti, nonostante le numerose attività realizzate con istituzioni o altre realtà indipendenti, di settore, o meno mainstream. E se la riflessione vuole essere spostata sull’esistenza, esperienza e qualità artistica di artisti italiani afrodiscendenti o con altre origini, sarebbe errato non considerare il ritardo in cui siamo, che di fatto ha rappresentato una barriera, e che l’humus si genera se c’è scambio fisico, interazione e incontro, condivisione. The Studio Museum in Harlem(New York) è probabilmente uno dei principali e più prestigiosi poli per artisti afroamericani e della diaspora africana. Rimanendo nei confini europei, e ridimensionando le grandezze, in Francia, a Parigi, abbiamo La Colonie, spazio artistico cross-disciplinare, anti-accademico e di pensiero critico, co-fondato dall’artista Kader Attia; nel Regno Unito, a Londra, c’è l’Autograph ABP, una realtà che si avvicina molto alla nostra idea di luogo di arti e cultura, insieme allo spazio indipendente Savvy Contemporary di Berlino, fondato dal camerunense Bonaventur Soh Bejeng Ndikung (curator at large di documenta 14). E in Italia? Dov’è l’Italia? Perché manca all’appello?

griot mag george floyd piazza dl popolo black lives matter manifestazione ©lilia carlone

griot mag george floyd piazza dl popolo black lives matter manifestazione ©lilia carlone

BLACK LIVES MATTER: L’ESIGENZA DI UNO SPAZIO DI SPERIMENTAZIONE IN ITALIA

Anche se ai più sembrerà una forma di ghettizzazione chiudersi in uno spazio in cui si intende dare rilevanza specialmente ad artisti afrodiscendenti e di altre culture e contaminazioni, vi assicuro che non lo è. È un processo, piuttosto, per il quale, a mio avviso, è importante passare, e che prima e poi verrà superato. Si spera prima che poi. Ma i livelli di conoscenza e di pensiero rispetto a certe tematiche, di storie (individuali e collettive che siano) e dinamiche, richiamano a questa necessità e responsabilità. Un tentativo che si avvicinava a questa visione in realtà è stato fatto nel 2018 dal direttore del Museo Egizio di Torino Christian Greco. Attraverso la campagna trimestrale “Fortunato chi parla arabo” (i cui risultati del 2016 erano stati ottimi), voleva stimolare la fruizione dell’offerta culturale della città a un prezzo ridotto per consentire ai cittadini di lingua araba di essere sempre più parte della comunità con cui avevano scelto di vivere e condividere il futuro. Scoppiarono le polemiche, la leader di Fratelli di Italia Giorgia Meloni sostenne che l’iniziativa era un atto discriminatorio nei confronti delle famiglie italiane.
Consapevoli del diverso contesto culturale in cui ci troviamo e delle lacune rispetto alle realtà internazionali sopra citate, a GRIOT siamo pronti e intendiamo battere questa direzione. Il quando per noi è ora già da un po’. Perché se non ora, quando?

Johanne Affricot

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Johanne Affricot

Johanne Affricot

Johanne Affricot è una culture curator, italiana-haitiana-ghanese, nata e cresciuta a Roma. È Fondatrice di GRIOTmag, piattaforma e collettivo creativo, artistico e culturale internazionale che porta alla luce e amplifica le diverse storie e voci dell’Africa, della diaspora africana e…

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