Carta Bianca a Capodimonte. Napoli mette a segno un’altra grande mostra
Musei come il MANN, direttori come Andrea Viliani, mecenati come Giuseppe Morra. Si sta prefigurando un nuovo Rinascimento napoletano? Gli ingredienti ci sono tutti. E fra questi, la notevole “Carta Bianca” in corso al Museo e Real Bosco di Capodimonte.
Da un lato Pompei va al Madre, con la doppia curatela del soprintendente Massimo Osanna e direttore del museo Andrea Viliani. Dall’altro, al Museo e Real Bosco di Capodimonte ritroviamo Viliani insieme al direttore Sylvain Bellenger per Carta Bianca. Capodimonte Imaginaire, rassegna organizzata insieme a Electa.
CARTA BIANCA: PERCHÉ?
Fino al 17 giugno, le sale del museo ospitano un saggio visuale a più mani che prende le mosse da quanto scriveva Francis Haskell sulle collezioni, ovvero l’importanza di dare risalto alle dinamiche e alle storie del collezionismo in connessione con quelle del territorio.
Sono dunque stati invitati dieci “visitatori ideali” per rileggere il museo e la sua storia, ognuno dal proprio punto di vista e con la propria sensibilità. Dieci visitatori per dieci sale, e in ognuna di esse… carta bianca. Potendo scegliere da una a dieci opere fra le 47mila della collezione. Scelta che però andava motivata e argomentata, e i visitatori “normali” possono saggiare la consistenza di tali riflessioni grazie alle videointerviste visibili sul proprio smartphone attraverso un’app sviluppata per l’occasione.
Si susseguono così – in ordine di apparizione – le sale immaginate e allestite da Vittorio Sgarbi, critico e collezionista d’arte, scrittore, docente; Marc Fumaroli, storico e saggista, membro dell’Académie française; Paolo Pejrone, architetto e paesaggista; Gianfranco D’Amato, industriale e collezionista; Laura Bossi Régnier, neurologa e storica della scienza; Giulio Paolini, artista; Giuliana Bruno, professore di Visual and Environmental Studies alla Harvard University; Mariella Pandolfi, professore di Antropologia all’Université de Montréal; Riccardo Muti, direttore d’orchestra; Francesco Vezzoli, artista.
LA MOSTRA
Diversissimi gli approcci e le scelte. Se Sgarbi propone un percorso intimo tra la propria biografia e quella del museo – un percorso che egli stesso definisce “interessato, presuntuoso, vanitoso” –, chiamando a testimoniare artisti come Guido Reni con la sua Atalanta e Ippomene (1620-25 ca.), Fumaroli fa emergere la dicotomia fra miseria e nobiltà, in un faccia a faccia tra l’aristocrazia di Bernardo Cavallino e il naturalismo dal sapore caravaggesco di Jusepe de Ribera.
Gioca d’astuzia Paolo Pejrone, il quale sviluppa il tema dell’ombra e dei boschi; lo fa scegliendo opere come il Paesaggio con la ninfa Egeria (1669 ca.) di Claude Lorrain, didatticamente eloquenti, affiancando però alle testimonianze dipinte l’invito diretto al visitatore e al suo sguardo: apre infatti letteralmente una finestra sul Real Bosco, dalla quale osservare in maniera diretta il parco che circonda il museo.
Sceglie un approccio ancora più accattivante e (forse eccessivamente) scenografico Riccardo Muti: la sua scelta ricade su un’unica opera/icona, la Crocefissione (1426) di Masaccio, che fa allestire in una sala in cui domina il buio e il silenzio. L’unico cono di luce è quello che investe la piccola tavola, posta a un’altezza vertiginosa, com’era in origine.
ANIMALI, QUOTIDIANITÀ E CONFLITTI
Tematiche precise connotano gli ordinamenti proposti da Laura Bossi Régnier e Giuliana Bruno. La prima indaga il rapporto fra uomo e animale, sottolineando quanto tale confronto sia stato da sempre venato di ambiguità, incomprensioni, alterne concessioni e specismi ante litteram – a testimoniare tutto ciò in maniera esemplare, Arrigo peloso Pietro matto e Amon Nano (1598 ca.) di Agostino Carracci. La seconda opta invece per un allestimento dalla forte eco scarpiana e, fra griglie e tendaggi, espone diverse quotidianità che hanno attraversato le epoche e che ora riemergono dai depositi del museo; una proposta di archeologia culturale che molto ha da insegnare ai sostenitori di certi valori che si presumono – a torto – universali e sovratemporali.
Proprio alle variegate temporalità attraverso le quali si racconta la Storia si rivolge l’attenzione di Mariella Pandolfi: l’antropologa mostra quattro opere (due di Matteo di Giovanni, una a testa per Luca Giordano e Annibale Carracci) in cui la tensione, sia essa sintomo di lotta o d’amore, si fa filo rosso di un caotico dissidio dal sapore eracliteo che impregna la vita umana. A dimostrazione, l’accozzaglia di spade e archibugi, armature e coltelli che, al centro della sala, fa da didascalico perno alla sua tesi.
SUSSULTI DALL’ERA NOSTRA CONTEMPORANEA
Nella sua sala, Gianfranco D’Amato scardina l’immagine stereotipata del collezionista, puntando sulle emozioni basilari dell’animo umano. Si concentra così sulle interiorità, quella di un San Girolamo nello studio (1445 ca.), intento a togliere una spina dalla zampa di un leone nell’opera di Colantonio, ma altresì su quelle di tre artisti della nostra epoca: Carlo Alfano, Louise Bourgeois e Mimmo Jodice.
Artisti contemporanei che sono pure direttamente coinvolti in qualità di selezionatori. Il primo che s’incontra è Giulio Paolini, il quale tuttavia rifiuta l’offerta e propone un’opera sua, creata specificamente per l’occasione. Con una motivazione che è in piena coerenza con la sua poetica: “Mi sono dunque volontariamente astenuto dallo scegliere quelle opere, numerose ed eccellenti, che potevano suggerire tanti imprevedibili ‘dialoghi’ tra buona parte di esse. Ho cioè osservato una sofferta rinuncia alla messa in scena di quel ‘museo personale’ che mi era stato consentito di realizzare per privilegiare invece un punto di vista teorico: formulare una sintesi assoluta, ancorché infondata e insostenibile di un’idea dell’arte”.
Presa di posizione quasi opposta quella di Francesco Vezzoli, impegnato in una triplice mossa che chiude il percorso espositivo. Si comincia con un ingresso in cui lo scultoreo Ritratto di Letizia Ramolino Bonaparte (1808 ca.) di Antonio Canova osserva contegnoso il terrificante Apollo e Marsia (1659-60) di Luca Giordano; segue un’infilata di dieci coppie di busti che si fronteggiano in file contrapposte, in un allestimento serrato ed efficace (com’era quello, simile ma senza incroci di sguardi, proposto da Salvatore Settis nella sala “erculea” di Portable Classic nella sede veneziana della Fondazione Prada); chiude infine il cerchio l’Autoritratto come Apollo che uccide il satiro Marsia (2015) dello stesso Vezzoli, cortocircuito temporale e culturale dal sapore ontaniano, che gode sempre di un certo successo.
– Marco Enrico Giacomelli
Prima versione dell’articolo pubblicata su Artribune Magazine #41
Abbonati ad Artribune Magazine
Acquista la tua inserzione sul prossimo Artribune
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati