L’opera Der Junge Lord di Hans Werner Henze è il grottesco specchio del conformismo
Al Teatro del Maggio Musicale Fiorentino è andata in scena, prima rappresentazione in Italia, la sorprendente opera composta dal tedesco Hans Werner Henze su libretto della scrittrice Ingeborg Bachman: il “Der Junge Lord”

Hans Werner Henze (Gütersloh, 1926 – Dresda, 2012), con la sua sesta opera Der Junge Lord, si inserisce a pieno titolo nel pantheon dei compositori del secondo Novecento, pronti a utilizzare il teatro musicale come strumento di indagine sociale, linguistica ed estetica. Composta nel 1964, su libretto della poetessa e scrittrice austriaca Ingeborg Bachmann, quest’opera sorprendente e poco eseguita è andata finalmente in scena per la prima volta in Italia, in lingua originale, nel contesto del Maggio Musicale Fiorentino. La produzione, presentata come secondo titolo operistico dell’87° Festival, dopo la Salome inaugurale, si è rivelata una delle sorprese più folgoranti dell’intera stagione nazionale, per la caratteristica di saper unire la complessità musicale a un impianto drammaturgico e visivo di straordinarie coerenza e bellezza.

La fiaba crudele del conformismo in “Der Junge Lord”
Der Junge Lord trae ispirazione da una novella fantastica di Wilhelm Hauff (La scimmia come uomo) e mette in scena, con spirito satirico e feroce, l’arrivo in una piccola città della provincia tedesca del misterioso e silenzioso nobile inglese Sir Edgar. Con lui giunge un seguito di bizzarri personaggi, tra cui spicca il giovane Lord Barrat, che subito attira su di sé le attenzioni della comunità, in particolare di Luise, giovane borghese combattuta tra sentimento e ambizione. L’intera cittadinanza, inebriata dalla promessa di un avanzamento sociale e culturale, si piega in modo grottesco alle apparenze, tentando in ogni modo di compiacere il nuovo arrivato. Ma il colpo di scena finale rivela la crudele beffa: Barrat non è un nobile rampollo, bensì una scimmia ammaestrata, camuffata da gentiluomo. Il sogno di elevazione si dissolve, lasciando dietro di sé solo il vuoto del ridicolo e il tragico abisso dell’umiliazione.

Una regia visionaria, una macchina teatrale perfetta
Il nuovo allestimento firmato da Daniele Menghini si distingue come una delle regie più compiute e inventive viste negli ultimi anni in Italia. Menghini, al suo debutto al Maggio, costruisce uno spettacolo visivamente ricchissimo e stratificato, dove ogni gesto, movimento e quadro scenico risponde a una logica interna lucidissima e coerente. La scena si apre su un cielo attraversato da camini spezzati, simbolo di una civiltà industriale già esausta e fittizia. Il palcoscenico pullula di animali – creature vere, simboliche, allucinate – e il mondo circense invade e contamina, per infine scardinare, l’ordine borghese. Il richiamo al Papageno mozartiano si insinua ironicamente in certi dettagli coreografici e gestuali, amplificando l’effetto di straniamento. Le fiamme reali che ripetutamente divampano in scena non sono solo effetto teatrale ma incendio simbolico del perbenismo smascherato. Le masse si muovono come un organismo unico, amplificate dalle coreografie di Sofia Nappi, con i danzatori della Komoco a fondere movimento espressivo e grottesco, in un caleidoscopio di gesti che sa di Berg, di Brecht ma anche di Rossini. Sì, perché se vogliamo tentare un paragone, Hans Werner Henze è un Rossini del Novecento, in cui la comicità è strumento del tragico, del vuoto, della vacuità umana e sociale. L’umorismo è aguzzo, parossistico, funzionale a una riflessione profondamente amara sull’omologazione e sull’inganno delle apparenze. Rossini affida all’umile e arguto Barbiere, il compito di sovvertire l’ordine borghese e la tranquilla routine di Siviglia. Henze delega lo stesso compito a una scimmia ammaestrata!
La partitura ricca, mobile, inafferrabile del “Der Junge Lord”
La concertazione di Markus Stenz è un capolavoro di equilibri e bilanciamenti: il direttore restituisce la pluralità stilistica della partitura – che spazia da echi neoclassici e allusioni stravinskiane fino a frammenti intimi di grande affiato lirico – con rara chiarezza. Non si tratta solo di precisione: la sua direzione respira col palcoscenico, accompagna, accentua, valorizza ogni momento dei protagonisti e delle masse. Si riconoscono, in filigrana, l’ombra di Strauss nei grandi quadri corali, l’intimismo del primo Novecento francese nei passaggi amorosi tra Luise e il falso Barrat e un sentore bergiano in alcune tensioni armoniche e nei colori orchestrali. Il risultato è una partitura che, pur restando nell’alveo di una tonalità ampliata, riesce a riflettere e commentare ogni nuance dell’azione scenica, rendendosi parte integrante della narrazione.

Un cast all’altezza del compito per il “Der Junge Lord” a Firenze
Straordinario il lavoro dell’intero cast, a cominciare da Giovanni Franzoni nel ruolo muto di Sir Edgar: la sua recitazione carismatica, quasi scultorea, definisce il mistero al centro dell’opera. Bravissimo Levent Bakirci nel ruolo del segretario; tra tutti si è distinta, poi, Marily Santoro che ci dona una Luise come fosse una “Zerlina” postmoderna, allo stesso tempo ingenua e calcolatrice, oscillante tra desiderio e opportunismo: la sua vocalità rigogliosa e commossa, realizza compiutamente l’idea musicale e drammaturgica. Matteo Falcier è un Lord Barrat ironico, sensuale, vocalmente solido e teatrale al punto giusto, mentre Marina Comparato, nei panni della Baronessa Grünwiesel, illumina la scena con humour e charme. Il cast è completato con efficacia da una folta schiera di comprimari, tra cui spiccano Caterina Dellaere, Andreas Mattersberger e Antonio Mandrillo, insieme ai giovani dell’Accademia del Maggio che confermano l’altissimo livello della scuola fiorentina. Il Coro del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino diretto da Lorenzo Fratini si attesta come una delle formazioni più versatili d’Europa, per precisione musicale e abilità scenica: da protagonista della storia, assume i mille volti della piccola borghesia, si adatta alle esigenze della regia, si muove, agisce rendendo credibile ogni capovolgimento, ogni eccesso. Di pari livello, anzi eccezionale, il Coro di voci bianche dell’Accademia del Maggio diretto da Sara Matteucci, capace di passare da una purezza angelica a sfumature perturbanti, elemento prezioso in un’opera che gioca costantemente sul limite tra favola e incubo, tra commedia e crudele parabola.
Una favola crudele che risuona oggi più che mai
Der Junge Lord si dispiega dinnanzi al pubblico fiorentino come un’opera potentemente contemporanea in grado di svelare i meccanismi di ipocrisia e conformismo che continuano ad avvelenare i rapporti sociali. I pregiudizi, invero, continuano a sregolare tali rapporti con preconcetti simili che oggi ineriscono alla diffidenza verso l’altro e si sostanziano in un annichilimento del pensiero critico. Lo spettacolo di Firenze ha lasciato negli spettatori una piena sensazione di unità e di completo appagamento intellettuale. Il Maggio Fiorentino, con l’orchestra che ha raggiunto capacità tecniche ed espressive non seconde a nessun’altra, almeno in ambito nazionale, ha forse trovato nel sovrintendente Carlo Fuortes il proprio rifondatore.
Giuseppe Simone Modeo
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