Aspettando Godot messo in scena da Theodoros Terzopoulos

Il regista greco mette in scena un classico del Novecento, evidenziandone l’attualità. Dopo il debutto al Teatro Storchi di Modena, lo spettacolo sarà in tournée fino al 5 marzo 2023

Theodoros Terzopoulos è forse il più noto fra i registi teatrali greci, ideatore di un metodo di lavoro per l’attore sistematizzato in volumi tradotti in moltissime lingue. Maestro nell’interpretazione e nella messinscena del repertorio tragico classico, nel 1985 ha fondato a Delfi la sua compagnia, Attis Theatre, che ora, insieme a ERT e Fondazione Teatro di Napoli ‒Teatro Bellini, produce un inedito allestimento di Aspettando Godot. Un testo che, peraltro, secondo Adorno, testimoniava concretamente quell’impossibilità della tragedia dopo gli orrori del secondo conflitto mondiale che il filosofo fu il primo a teorizzare.
E la familiarità di Terzopoulos con il tragico, genere mai ridotto a sterile monumento bensì sempre criticamente interrogato, è stata certo un punto di partenza non eludibile nella costruzione dello spettacolo, di cui il regista greco ha curato anche scenografia, luci e costumi.

Aspettando Godot, foto di Johanna Weber

Aspettando Godot, foto di Johanna Weber

ASPETTANDO GODOT DI TERZOPOULOS

Al centro del palcoscenico, immerso nell’oscurità, una struttura quadrata nera, composta da quattro pannelli che, variamente movimentati, rivelano i personaggi e suggeriscono paesaggi, questi interiori, in verità, poiché ogni possibile residuo di naturalismo è bandito, a favore certo di un accentuato simbolismo ma pure di una sottile vena dissacratoria – l’albero spoglio accanto al quale, secondo la didascalia beckettiana, i due protagonisti attendono Godot è qui un bonsai rinsecchito in proscenio.
Vladimiro ed Estragone – magistralmente interpretati, rispettivamente, da Stefano Randisi ed Enzo Vetrano – compaiono nella parte alta della struttura scenica, sdraiati: si parlano senza guardarsi, testa contro testa. L’arrivo di Lucky (Giulio Germano Cervi) e del suo padrone Pozzo (Paolo Musio) coincide con un’ulteriore apertura della struttura apparentemente cubica ed è accompagnato dalla comparsa di oggetti di scena tanto materialmente concreti quanto intrinsecamente simbolici: coltelli dalle lame insanguinate ma pure molte paia di scarponi, una croce di legno e, nel finale, libri aperti, anch’essi, grazie a un uso drammaturgicamente pregante delle luci, ricoperti di sangue.
Il regista edifica dunque quale complemento e chiosa del testo beckettiano una drammaturgia visiva e sonora – musica religiosa ma anche rumori sordi che suggeriscono catastrofi – tanto incantante quanto esplicitamente simbolica, senza, tuttavia, imporre un’univoca chiave di decifrazione.
Terzopoulos, d’altronde, pare mettere in scena in primo luogo il proprio accanito interrogarsi sulla densa complessità del play, condividendo con gli spettatori pure l’inevitabile smarrimento generato dall’atemporalità e dal relativismo che contraddistinguono quanto avviene sul palco: forse Valdimiro ed Estragone sono già morti; Lucky e Pozzo non sono reali ma creature generate dalla loro fantasia per “passare il tempo”; e il ragazzo (Rocco Ancarola) inviato da Godot un miraggio, così come il suo “leggendario” padrone. L’intera opera, in fondo, è un espediente per ingannare il tempo in attesa della prossima, tragica, guerra.

Aspettando Godot, foto di Johanna Weber

Aspettando Godot, foto di Johanna Weber

BECKETT SECONDO TERZOPOULOS

Nella lettura di Terzopoulos il capolavoro di Samuel Beckett appare così uno specchio d’acqua profondo e sfuggente, all’interno del quale lo stesso riflesso dell’uomo perde precisa definizione e, d’altronde, dopo le atrocità della prima metà del Novecento, l’umanità aveva indubbiamente perso la propria positivistica saldezza. Il regista greco, nondimeno, sceglie di schivare l’inevitabile pessimismo a favore di un atteggiamento, come accennavamo, di sincera ricerca, fondato su un interrogarsi sul senso dell’esistenza che è esso stesso ragione di sopravvivenza.
Un approccio al testo coerentemente incarnato dagli interpreti, a partire dai protagonisti, cui Vetrano e Randisi sanno regalare minimi movimenti del viso e del corpo – mani e piedi che paiono divenire quasi pinne e ali – così come umori costantemente cangianti, dal riso al pianto, dalla speranza alla disperazione. Così il Pozzo, ora implacabile e, nel secondo atto, affatto vulnerabile, incarnato da Paolo Musio. E, ancora, la cura concentrata nelle prove dei due giovani, Cervi e Ancarola.
Cinque creature fragili e contraddittorie, capricciose e infantili e nondimeno consapevoli che, benché il loro destino sia inevitabilmente la fine, forse all’umanità è riservata la possibilità di un nuovo inizio.

Laura Bevione

http://www.attistheatre.com/

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Laura Bevione

Laura Bevione

Laura Bevione è dottore di ricerca in Storia dello Spettacolo. Insegnante di Lettere e giornalista pubblicista, è da molti anni critico teatrale. Ha progettato e condotto incontri di formazione teatrale rivolti al pubblico. Ha curato il volume “Una storia. Dal…

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