Corpo di luce, corpo in cammino. Conversazione con Ermanna Montanari su Cantiere Dante

L’eredità dantesca va in scena attraverso una rappresentazione teatrale che, partita da Ravenna, sbarcherà nei teatri di cinque continenti. La sua ideatrice ci ha raccontato i risvolti di questa avventura.

Con Ermanna Montanari del Teatro delle Albe abbiamo fatto il punto su Cantiere Dante, progetto di teatro di massa, popolare, urbano, iniziato a Ravenna con Inferno, e passato da Matera con il Purgatorio. Il lavoro che coinvolge gli abitanti delle città trasformandoli in attori terminerà nel 2021, anno del seicentenario dantesco con un Paradiso previsto sia a Ravenna che in Romania. Proprio la versione che quest’estate è andata in scena nella Capitale della Cultura ha convinto il Ministero degli Esteri, tanto da chiedere al Teatro delle Albe di esportare il progetto nei cinque continenti.

CANTIERE DANTE DEL TEATRO DELLE ALBE

Non esporteremo un format”, ci ha spiegato Montanari che assieme a Marco Martinelli firma ideazione, direzione artistica e regia, “ma dovremmo coinvolgere, come abbiamo fatto a Ravenna, gli abitanti del Bronx, di Buenos Aires e di altre città. Sarà un lavoro di traduzione, di mediazione, incontri e viaggi per far sì che lo spettacolo si generi da una relazione autentica con i cittadini di quelle località”. Parte del progetto dantesco è anche lo spettacolo Fedeli all’amore, polittico in sette quadri su testo di Marco Martinelli “attorno” a Dante Alighieri e al nostro presente. Anche Fedeli pone al centro del progetto il corpo dell’attore che incontrando quello di Dante, è politico oltre che poetico. “Nessuna cosa è distinguibile in Fedeli, è una con-fusione di corpo politico e poetico”, prosegue, “il corpo è attraversamento. Ermanna è lì, ma non recita. È parola, poesia e voce. Ma è un corpo politico perché il teatro è corpo politico, nel senso dantesco. Dante ha una visione politica e cristallina. Lui di fatto è un profugo”.

Fedeli è un’entropia, sfaldamento del corpo nel suono e nella voce. Come il lavoro che avete portato nelle strade e nelle piazze, anche il viaggio di Dante è una trasformazione senza una fine. In cosa consiste allora la contemporaneità?
La contemporaneità non è un fatto storico: noi siamo nel solco dei nostri contemporanei. Perché studiamo Euripide, i presocratici? Perché hanno un soffio dell’eternità, è la nostra umanità che non muta. Fedeli è scritto oggi ma è un inno alla durata, un Dante con noi. Non c’è Ermanna che recita, ma l’Italia che scaccia se stessa e la fine non è una fine.

Il corpo si fa partitura e strato tra i segni della città. In Fedeli, invece, perde la centralità e diventa carne di scena, sovrapposizione, “macchina dell’attore”, diceva Carmelo Bene.
Per me è un essere fuori dal centro, essere sbalzati. L’essere pietra di scarto mi ha sempre fatto sentire il palco un patibolo. Noi ci diamo a vedere ad una folla in un atto che ha a che fare con il sacrificio. Lì si sacrifica l’ego. Si è lì perché si è sbalzati in quel modo, confusi e fusi con la materia di cui siamo fatti. In questo non c’è atteggiamento prometeico. In fondo, quotidianamente, noi siamo visti dalla terra, dagli alberi che ci circondano.

Cantiere Dante, Teatro delle Albe ph Enrico Fedrigoli

Cantiere Dante, Teatro delle Albe ph Enrico Fedrigoli

In Fedeli ritorna il dialogo fecondo con Luigi Ceccarelli. Come hai costruito questa vota la partitura ritmico-sonora?
Con Luigi c’è sempre una grandissima intesa, una poetica che è una treccia comune, un intrecciarsi di un lunghissimo filo. Abbiamo riflettuto insieme su cosa significhi cadere. Cadere nella nebbia della morte, la nebbia di Ravenna e la nostra che ci divide da Dante. Ne sono nate le grandi cateratte del tempo ed una vocalità di nebbia: ci siamo chiesti cosa fosse una voce di nebbia.

E cosa ne avete tratto?
Abbiamo lavorato sulla voce della nebbia e quello che è venuto fuori è un testo che all’inizio doveva essere romagnolo: “i so da par tot”. La nebbia è ovunque e noi siamo nella nebbia, la sala è nella nebbia. E nella nebbia il corpo si fa cavo. Un corpo cavo, una voce cava per accogliere tutta la sala e quello che accade lì e il pubblico comincia a completare quel che sta succedendo.

Nell’alchimia vocale e sonora la nebbia è una madre-materia?
Siamo dentro a una materia. Che ci fa respirare e ci rende simili alla sala e al teatro. In questa nebbia si muovono ombre, ma in questa finzione teatrale ci sono le grandi invettive che ha scritto Marco Martinelli contro la corruzione e l’Italia.

E il teatro?
Dante in fondo ci descrive il Paradiso come un teatro dove tutto è in movimento, tutto è all’interno di questi cerchi, qui accade qualcosa che può comprendere solo l’organo dell’intelligenza intuitiva.

Sul palco, come tra le strade, il fantastico è la soglia del reale e il vero si confonde con l’immaginario.  Si assiste comune sempre ad un lavoro di de costruzione, interscambiabilità nella fluidità?
È una con-fusione alchemica. In teatro noi pensiamo che lo spettatore possa condividere con noi l’emersione della luce dal buio. L’emozione dello spettatore è in relazione a questa luce e si fa sorprendere. Il teatro ha sempre qualcosa di meraviglioso, sia esso realistico o fantastico. Dipende da dove arriva il primo affioramento. È come si sta nel sonno prima di dormire. Dipende dalle forme, Fedeli all’amore l’abbiamo fatto poco dopo Va pensiero, molto più realistico. Qui c’è un affiorare nel buio: ci piace disporre una tavola variegata.

Come si esce dall’inferno? Calvino ci dava una soluzione…
Non si deve prescindere dal fatto che esiste una luce, un occhio che ci guarda. Per me quella luce esiste davvero. Dove essa sia non lo so, ma esiste.

Come stare, allora, nella luce?
I nostri atti sono contagiosi se sono nel Bene. Il Bene ci porta il sorriso e l’essere morbidi come fiumi. Dante ha scritto la Commedia per renderci felici. E non c’è altro che abbia senso se non lo stare il più possibile nella felicità. La felicità ci è data per grazia e se le nostre opere sono nel bene, noi siamo nella felicità.

Una questione di scelte?
Credo che non ci si debba mai togliere da una scelta e questo concerne la durata e la fedeltà. Alla fine, si tratta di allenarsi. Chopin allenava il suo polso per comporre quello che ci ha lasciato. Cerchiamo di fare esercizi spirituali per aprirci ad una Grazia, ad una possibile felicità, non creata da noi ma ricevuta da un contagio.

Parlavi di buio e di luce che taglia le tenebre. Ho visto foto meravigliose di Fedeli. Cosa ha raccolto lo sguardo del fotografo Fedrigoli con il suo banco ottico?
La sua è una faccia di occhi che vedono oltre il buio. Se io sono all’interno di frecce di luce e non si vede nulla, lui riesce a vedere un corpo che c’è ma non è tutto, non è integro. Lui fa un’opera e per primo capisce la mia. Individua la sostanza dell’opera che ha davanti e adopera le mani come una volta, i medici diagnostici. Oggi abbiamo perso il tocco e perdere il contatto è perdere l’amore.

-Simone Azzoni

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Simone Azzoni

Simone Azzoni

Simone Azzoni (Asola 1972) è critico d’arte e docente di Storia dell’arte contemporanea presso lo IUSVE. Insegna inoltre Lettura critica dell’immagine e Storia dell’Arte presso l’Istituto di Design Palladio di Verona. Si interessa di Net Art e New Media Art…

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