Teatro. La commedia della vanità, tra populismo e dittatura

Al Teatro Storchi di Modena (ERT), il regista Claudio Longhi mette in scena l’opera di Elias Canetti, un'aberrante parabola della morte, del potere, della massa, del delirio. Un testo distopico ambientato dentro un grande circo, un’opera di avvertimento su tendenze e pericoli percepiti nella nostra società.

In epoca di irrinunciabile selfie, di ossessione narcisistica, di boria come (dis)valore, di delirio dell’apparenza, di schiavitù e inflazione dell’immagine, di tossicità auto-contemplativa, lo spettacolo La commedia della vanità di Elias Canetti forse ci offrirà qualcosa nel quale riconoscersi. Poiché l’immagine è anche, e soprattutto, il mezzo attraverso il quale l’uomo arriva a conoscere se stesso e ad affermare la propria identità: negata questa, l’essere umano è un nulla. Scritta dall’autore austriaco fra il 1933 e 1934 in seguito alla presa del potere da parte di Hitler, l’opera prende palesemente spunto dal rogo dei libri operato dai nazisti a Berlino il 10 maggio 1933. Anche qui abbiamo un rogo. Siamo dalle parti di censura e distopia, di populismo e dittatura. Tutto si svolge in un ipotetico Paese dittatoriale, dove la vanità è messa al bando dall’autorità perché considerata un male, un morbo pericoloso da debellare. È decretata, quindi, la distruzione di tutti gli specchi, di qualsiasi vetro, fotografie, pellicole cinematografiche e ritratti. Insomma qualsiasi oggetto che possa rappresentare l’effigie dell’uomo e farlo cadere nell’adulazione di sé e degli altri. Pena il carcere per i trasgressori e addirittura la morte. Come sempre accade, la massa, abilmente istruita da predicatori vari, accoglie con entusiasmo l’imposizione, tanto da fare del rogo addirittura una festa. Col trascorrere degli anni però subentra il rimpianto della propria immagine, il non sapersi e potersi riconoscere, guardare, ammirare. La ricerca disperata di un minimo riflesso di se stessi e il regime di proibizionismo faranno sviluppare, inevitabilmente, attività illegali come quelle dei pezzi di specchi venduti di nascosto o trafficati per pochi minuti, mentre chi, come cinque ragazzine, non può pagare, rimedia specchiandosi negli occhi altrui. La patologia dell’epoca è talmente forte che il regime permetterà l’istituzione di una “casa della tolleranza dell’immagine”, una “casa di cura” in cui è concesso specchiarsi dietro pagamento. Mentre ciascuno è intento a contemplarsi, una voce esorta quella massa alla rivolta. Usa la sola forza del tono, senza alcun contenuto (ecco i germi inquietanti del potere, dell’Uomo Forte al comando, dell’insinuarsi della pratica dittatoriale). La moltitudine, come prima aveva accolto i divieti, raccoglie ora acriticamente il messaggio. Toglie gli specchi dalle pareti e si riappropria delle individualità, gridando: “io! io! io! io! io!”. L’individuo, divenuto per un momento massa, ritorna a essere, con la medesima violenza, individuo.

La commedia della vanità. Regia Claudio Longhi. Teatro Storchi, Modena 2019. Photo Serena Pea

La commedia della vanità. Regia Claudio Longhi. Teatro Storchi, Modena 2019. Photo Serena Pea

LA REGIA DI CLAUDIO LONGHI

Regista rigoroso, da sempre fautore di un teatro necessario, “politico” nell’eccezione più pura, specchio delle contraddizioni del nostro presente attingendo dai segni letterari di un passato prossimo, Claudio Longhi ha reso la materia canettina – un testo-fiume ridotto e restituito in quasi quattro ore di spettacolo – una macchina densamente teatrale dove confluiscono e dipartono continui e intersecati segni grotteschi, caricaturali, da scalcagnato circo espressionista, decadente e sinistro (e il riferimento va al film di Max Ophuls Lola Montès). Tutta la sala del Teatro Storchi di Modena (dove lo spettacolo, prodotto da ERT, Teatro di Roma, Fondazione Teatro della Toscana e Lac Lugano, ha debuttato) è un grande chapiteau con luminarie sul soffitto, e un palco circolare con ponticello disposti al centro della platea (scena di Giulia Buzzi, costumi di Gianluca Sbicca, luci di Vincenzo Bonafini). Da qui, animati da una frenesia cinetica e vocale, si muovono la massa e i singoli con scorribande fino al palcoscenico costituito da quinte che modellano ambienti su una pedana girevole, e da un cavalcavia metallico sovrastante. Centro delle azioni è una gabbia circense dove le bestie in mostra sono proprio gli esseri umani che si dibattono nel gran circo di questa inquietante comunità sull’orlo del collasso, attraversata da quell’eros che alimenta il culto del potere. Longhi struttura la messinscena per numeri circensi, come un varietà, complice la musica di un duetto dal vivo (cymbalon e violino). Dalla parade iniziale con l’incipit di un banditore e scorrerie in platea, si passa a uno straniato dramma borghese, per esplodere nella terza parte in una spasmodica pantomima di stampo espressionista, declinata come irridente parodia tragica. Con continui ribaltamenti dialettici, i ventitré attori – dieci del nucleo della compagnia di Longhi, e tredici allievi della scuola di ERT ‒ si sdoppiano in molteplici ruoli il cui fulcro è rappresentato da un unico interprete, Fausto Russo Alesi, che incarna tre personaggi emblematici, ovvero i possibili diversi stadi di evoluzione ed emanazione del potere stesso.

Giuseppe Distefano

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Giuseppe Distefano

Giuseppe Distefano

Critico di teatro e di danza, fotogiornalista e photoeditor, fotografo di scena, ad ogni spettacolo coltiva la necessità di raccontare ciò a cui assiste, narrare ciò che accade in scena cercando di fornire il più possibile gli elementi per coinvolgere…

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