Tutta danza al festival Inteatro di Polverigi

Un’edizione quasi interamente dedicata alla danza o meglio a spettacoli che possono dirsi appartenere alla danza, per la loro ricerca approfondita sul movimento, capace di contenere altri generi. Dalle arti visive, alla musica, al teatro.

È un piccolo borgo delle colline marchigiane vicino ad Ancona. Ma da quarant’anni vanta uno dei festival più longevi della penisola, Inteatro, diventato, con la direzione artistica di Velia Papa di Marche Teatro, punto di riferimento della scena teatrale contemporanea, luogo privilegiato di un confronto con esperienze artistiche internazionali, sede di residenze creative e fucina di giovani leve del teatro e della danza. Il festival, infatti, nasce da laboratori che animano per tutto l’anno la struttura di Villa Nappi e i diversi spazi di Polverigi. Questa edizione ha visto un programma quasi interamente dedicato alla danza nelle sue diverse declinazioni: un programma ricco di artisti italiani e internazionali, di debutti assoluti e della presenza di moltissimi operatori stranieri. Segno della grande attenzione di cui gode il festival. Qui vi raccontiamo alcuni spettacoli.

A PEACEFUL PLACE

Frutto di un laboratorio condotto in India e dell’incontro esperienziale con tre danzatori della compagnia Attakklari di Bangalore, A peaceful place ingloba diversi linguaggi della danza tradizionale indiana – il Kalari Payat, arte del combattimento, elementi di yoga e di antiche ritualità induiste ‒ con quelli occidentali del contemporaneo elaborato da Davide Valrosso, artista chiamato dal Progetto Crossing the Sea e dal Programma Boarding Pass a dialogare con i giovani performer per sperimentare forme di collaborazione e di ibridazione attraverso la danza. Il susseguirsi di piccole azioni coreografiche scandite da suoni dal vivo e da musiche indiane compone un mix che unisce sapientemente una gestualità più formale e materica comprensiva di cenni di break-dance, a quella, di grande fascino, del rito di preparazione del guerriero prima di un combattimento. Sono due uomini e una donna al risveglio, seguiti da una vestizione femminile, dall’intrecciarsi e distinguersi dei corpi in molteplici combinazioni. Sembrano formare un’unità fisica e spirituale assumendo posture e movimenti tipici dell’antica arte gestuale sciolta in uno spazio concepito site specific nel mutare di volta in volta, al chiuso o all’aperto, con lo sguardo del pubblico. Questo, non certamente nuovo, esperimento di ibridazione produce, nella trasmissione di saperi coreografici, una stratificazione gestuale che viene restituita con naturalezza dai corpi e dall’espressività dei performer.

Andrea Costanzo Martini & Cindy Séchet, La camera du roi. Photo Giulia Di Vitantonio

Andrea Costanzo Martini & Cindy Séchet, La camera du roi. Photo Giulia Di Vitantonio

SAY IT

Say it, con Simone Donati e Stephen Quildan di P/IN The Bucket Collective, esplora lo spazio delle relazioni tra due sconosciuti che rappresentano una gamma di sentimenti e di situazioni nel tentativo di riuscire a comunicare, a esprimere se stessi, a dare voce alle proprie ragioni. Dal rigetto iniziale alla curiosità, dalla confusione al desiderio, dalla competizione alla lotta, i due stabiliscono un rapporto nel quale vulnerabilità e fiducia sono messe alla prova da una performance molto fisica fatta di sfioramenti, di prese, di salti, di movimenti acrobatici, di sguardi e abbracci, di parole al microfono, di suoni elettronici creati in diretta dagli stessi da una consolle laterale negli attimi di sosta. Suoni che determinano il climax del rapporto, ma senza aggiungere nulla di nuovo agli innumerevoli duetti maschili che, spesso, ripetono cliché tematici ed espressivi anche nelle sequenze di movimenti.

POSARE IL TEMPO

Posare il tempo, della coreografa Claudia Catarzi in coppia con Claudia Caldarano, vive di empatica inventiva gestuale, di continue trasformazioni in atto, di posture sempre inedite, di accumuli scultorei rigeneranti, di esplosioni minimaliste, di bilanciamenti corporei e assestamenti in equilibri precari, di sintonie plastiche, per raccontare, nell’esporsi allo sguardo altrui, storie carpite da pensieri e da sguardi che si specchiano l’uno nell’altro, creati dai due corpi con frammenti gestuali che non si smette di osservare. Quel lento movimento che muta quasi impercettibilmente rimanda a certe trasfiguranti composizioni video in slow motion di Bill Viola, fissandone il movimento intimo e propulsore. In questo gioco di complicità sottesa, di riflesso fisico, elemento unificante di trasformazione è un grande quadrato bianco che inizialmente funge da parete, quindi da tappeto da spostare e trascinare, da inglobare nei corpi, mentre essi, nel cambio di atmosfere e di costumi con una gonna unica che li lega, vibrano e mutano velocità al suono lieve o roboante delle percussioni live di Gianni Maestrucci.

Dewey Dell, Deriva traversa. Photo Giulia Di Vitantonio

Dewey Dell, Deriva traversa. Photo Giulia Di Vitantonio

DEWEY DELL

Duplice la presenza dei Dewey Dell. Deriva traversa di Teodora Castellucci è un magnetico assolo open air che incarna la solitudine del pastore, un’immersione silenziosa dentro un paesaggio fisico e dell’anima dopo aver assorbito i suoni circostanti di animali e di campanacci, recuperando un silenzio di pregnante densità. È un corpo carico di storie da rivelare e da trasmettere, un’invisibile presenza da suscitare. Scorrendo lentissimamente lungo un tappeto, in un contorsionismo e una tensione densamente poetica di tutte le arti del corpo, la performer cambia posture da umano ad animale. E viceversa. È corpo liquido nello strisciare, è sasso nel rannicchiarsi, è pianta nel protendersi in alto. Infine blocco fetale. Storm atlas vede addensati, dentro un piccolissimo spazio, la performance dei tre fratelli Castellucci: Agata, Demetrio, Teodora ed Eugenio Resta, in una travolgente composizione musicale percussiva, gestuale, cantata, complicI potenti fasci di luce, che è un catalogo di tempeste, di suoni squassanti, di elementi naturali in rivolta, che ci dicono la finitezza umana di fronte alla potenza della natura.

LA CAMERA DU ROI

Dopo il felice esito di Intro creato per quattro danzatori del Balletto di Roma, c’era molta aspettativa per il nuovo lavoro di Andrea Costanzo Martini La camera du roi, qui in scena insieme alla videomaker Cindy Séchet. Il coreografo e danzatore italiano, con base a Tel Aviv, esplora la tensione tipica del performer: l’ossessione per la sua stessa immagine ma anche quella di essere guardato. Veste i panni di un re francese, stile Versailles, e lo fa inseguire da una telecamera che lo riprende, inizialmente, in camerino intento a vestirsi e prepararsi all’esibizione tra grida e applausi fuoriscena. Catapultato sul palcoscenico, darà mostra di sé, delle sue doti di danzatore classico e contemporaneo, per essere ammirato. Assumerà posture bislacche, smorfie e pose ironiche uscendo e rientrando da una quinta laterale inseguito sempre dal video che lo proietta in diretta su un grande schermo, focalizzando dettagli del suo corpo e delle sue espressioni. Schiavo della sua stessa immagine, ingaggerà una sorta di combattimento col duplicato di sé stesso riflesso e, successivamente, con l’operatrice, intenta, a sua volta, a creare un film con l’illusione di un montaggio in diretta sfocando, tagliando, accelerando o rallentando le immagini. Se l’inizio prometteva bene, per l’originalità dell’idea, gli elementi in campo e la verve stilistica e ludica di Martini, lo sviluppo non ci è sembrato consequenziale in quanto la performance, dopo un po’, ha dei tempi morti e gira su se stessa anche per certi cliché espressivi e fisici visti in altri spettacoli del coreografo. Trattandosi di uno spettacolo fresco di debutto, forse gioverebbe rimetterci mano.

PIN. The Bucket Collective, Say it. Photo Giulia Di Vitantonio

PIN. The Bucket Collective, Say it. Photo Giulia Di Vitantonio

FOOD

Spostandoci ad Ancona, all’interno del Museo archeologico, in una stanza con degli affreschi mozzafiato, siamo stati invitati a sederci attorno ai tavoli di un originale ristorante per vivere un’esperienza conviviale, sensoriale e partecipata, che aveva al centro il tema del cibo e il nostro rapporto col mangiare, trattato nei suoi aspetti sociali, culturali e politici.
Siete mai stati influenzati dalla confezione di un nuovo prodotto alimentare? È davvero preferibile acquistare prodotti a kilometro zero? O forse bisognerebbe diventare vegetariani?”.  Queste alcune delle domande. Mescolando danza, teatro, musica e comicità, la divertente performance Food creata da Luca Silvestrini e Orlando Gough, e con performer Simone Donati e Virginia Scudeletti che fanno da camerieri, attiva nei commensali emozioni e ricordi, perché ci sono sapori, odori, ingredienti e ricette specifiche che ci riportano a una persona, a un luogo, a un momento della vita, legato com’è il cibo, alla nostra educazione, alla vita familiare, a momenti felici o meno. Lo spettacolo (qui in una versione più intima rispetto all’originale che prevede quattro danzatori e quattro cantanti) si svolge intorno a un menu di test che viene servito e che fa emergere diversi personaggi, le loro storie o atteggiamenti nei confronti del cibo. E così, tra un assaggio e l’altro, un canto e una danza tra, sopra e sotto i tavoli, una chiacchera e l’altra mentre si cucina un ciambellone, vengono sollevate riflessioni, poste domande sulle nostre abitudini o stranezze alimentari, che ci interpellano.

Giuseppe Distefano

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Giuseppe Distefano

Giuseppe Distefano

Critico di teatro e di danza, fotogiornalista e photoeditor, fotografo di scena, ad ogni spettacolo coltiva la necessità di raccontare ciò a cui assiste, narrare ciò che accade in scena cercando di fornire il più possibile gli elementi per coinvolgere…

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