La danza nel vuoto di Roberto Zappalà. A Torino

Al Teatro Regio di Torino, per la stagione d’Opera 2018/2019, sono andate in scena due diverse e incompatibili idee culturali della Sicilia: da una parte quella trasfigurata e inclusiva nell’inedita coreografia “La giara” di Roberto Zappalà, dall’altra quella solita e immobile nella regia di Gabriele Lavia di “Cavalleria rusticana”.

Gli stereotipi geografici sono i più resistenti, e i più banali. Capita così di reiterare, nelle rappresentazioni di temi folclorici, immagini desuete e fuori dal tempo credendo di adempiere a un compito di fedeltà alle ragioni del passato, commettendo invece una vera e propria violenza culturale su quelle del presente. Al Teatro Regio di Torino, per la stagione d’Opera 2018/2019, sono andati in scena nella stessa serata, La giara, “commedia coreografica” composta da Alfredo Casella (1924), e Cavalleria rusticana, melodramma di Pietro Mascagni (1890). “Dittico tutto mediterraneo”, mirabilmente diretto da Andrea Battistoni che ha esaltato la dimensione espressiva dell’intera orchestra: ne è uscito un incredibile insegnamento. Il secondo titolo, affidato alla regia di Gabriele Lavia, ha messo in scena gli stereotipi più triti e abusati della narrazione meridionale, come se la Sicilia di Mascagni e di Verga (alla cui opera il libretto della partitura si ispira) fosse incapace di dialogare con quella di oggi. E dunque è stato tutto un inutile profluvio di coppole e scialli neri, di una gestica da melodramma parodiato, di sguardi patriarcali e sottomissioni muliebri sullo sfondo immutabile di una oppressiva piazza di paese fatta di pietra lavica che tutto immobilizza e controlla. Il primo titolo, invece, è stato affidato (in una nuova commissione, dunque in prima assoluta) al coreografo catanese Roberto Zappalà, che al contrario ha realizzato una coreografia potenzialmente critica perché capace di trasfigurare l’ovvio e il consueto in nuovi punti di vista inclusivi di ciò che è periferico e che affiora sui margini.

Compagnia Zappalà Danza, La Giara. Photo Andrea Macchia

Compagnia Zappalà Danza, La Giara. Photo Andrea Macchia

SUL PALCOSCENICO

La scena è già bellissima: sul palcoscenico si intravede, gigante, il solo bordo circolare, i margini appunto, di una giara sulla cui superficie i corpi si muoveranno. Con l’effetto di uno spettacolare zoom, si danza dunque il contenuto, ciò che paradossalmente, sia nella novella pirandelliana a cui il balletto si ispira sia in tutte le versioni coreografate in precedenza, non viene mai tematizzato: il vuoto interno della giara. Il dentro di quel vuoto, che subito sfuma nella rottura della preziosa brocca con tutto ciò che ne consegue, nella lettura coreografica di Zappalà e nella drammaturgia di Nello Calabrò diventa una presenza materiale attraverso cui si genera il movimento. “La danza all’interno e non all’intorno” è anche una forte ipotesi contrastiva, oltreché monito epistemico, all’immobilità dell’immaginario su ogni Sud del mondo.
Sul palco un movimento sempre collettivo: undici danzatori tutti barbuti e tutti stretti e fasciati in tutine aderenti stampate a decorazioni astratte (bellissime, non folcloriche né distintive di alcunché), mai come stavolta veramente corpo unico, e, nonostante le differenze, tanto delle energie quanto delle stature, anche volutamente esibite dal coreografo con piglio sardonico e beffardo (come, per esempio, nel duo improbabile ma riuscitissimo tra Gaetano Montecasino e Rubén García Arabit).
Un movimento collettivo anche potenziato nella sua dimensione totemica attraverso l’utilizzo di una protesi che di nuovo organizza, variandola, questa comunità. Sempre insieme, sempre solidale, sempre alternativa e riparativa (come dovrebbe essere la brocca rotta) di un sopruso perpetrato: forse quello del mondo maschile su quello femminile; forse quello del mondo urbano (il fuori) su quello rurale (il dentro).

Compagnia Zappalà Danza, La Giara. Photo Andrea Macchia

Compagnia Zappalà Danza, La Giara. Photo Andrea Macchia

COREOGRAFIA E MUSICA

Il progetto drammaturgico e la coreografia sono senz’altro un apice nel lavoro ormai consolidato del coreografo catanese: la sua ricerca non mira a rinnovare il vocabolario, ma sperimenta direttamente la dimensione teatrale del movimento in danza. Resta però in questa nuova Giara una discutibile subalternità della scrittura coreografica nella relazione con quella della musica. E non tanto sul piano della comprensione del suo ascolto, qui reso altissimo, ma nel rispetto francamente troppo ossequioso, dunque superstizioso, degli attacchi e delle successioni della partitura. Nella danza non vi sono quasi mai transizioni: si spegne e si riaccende quasi sempre solo sulla musica. Quando invece le cesure sono (come in un paio di casi) riempite dai danzatori col gesto e con la voce, occupando interamente lo spazio visivo e acustico della scena, ecco improvvisa emergere una tendenza unificante e coerente della danza capace di emancipare il discorso coreografico dal dominio musicale. Il magma magnifico creato da queste decorazioni in forma di corpi voluti da Zappalà forse meritava quell’inarrestabile (indomabile e disubbidiente) fluire della lava a cui così spesso il coreografo catanese si ispira: la forza del collettivo contro qualsiasi dittatura.

Stefano Tomassini

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Stefano Tomassini

Stefano Tomassini

Stefano Tomassini insegna Coreografia (studi, pratiche, estetiche), Drammaturgia (forme e pratiche) e Teorie della performance all’Università IUAV di Venezia. Si è occupato di Enzo Cosimi, degli scritti coreosofici di Aurel M. Milloss, di Ted Shawn e di librettistica per la…

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