30 anni di Wish, l’album capolavoro dei Cure

Il maggior successo commerciale della band new wave capitanata da Robert Smith compie trent’anni. Ecco la sua storia e un viaggio tra i video ispirati ai brani che contiene

Il 21 aprile del 1992 i Cure di Robert Smith pubblicano ‒ parafrasando Tennesse Williams ‒ un album chiamato “desiderio”: Wish, appunto, che in realtà potrebbe essere inteso anche come imperativo, cioè come un vero e proprio comandamento a cui siamo chiamati a ubbidire: “Wish!” (“Desidera!”). Nel caso specifico ‒ come spesso accade quando ci si addentra e ci si perde nei meandri interpretativi della musica pop (I’m lost in a Forest) ‒ entrambe le opzioni “suonano” verosimili. A trent’anni di distanza, infatti, ci troviamo al cospetto di un disco che è al tempo stesso un’esortazione al desiderio e l’essenza del desiderio stesso; un oggetto misterioso che non sappiamo ben definire, fatto di pulsazioni contrastanti (Oscar Wilde docet), i cui contorni sfocati si sfaldano nel dream pop etereo di To Wish Impossible Things: il brano simbolo (ma non singolo) del disco, in cui le pulsazioni del desiderio vengono (tra)sportate dalla viola di Kate Wilkinson fino all’atto più estremo del “desiderare cose impossibili”,  a certe notti che credevamo non sarebbero mai finite ‒ Remember how we used to dream / Those nights would never end ‒ e che invece si sono poi scontrate con una vera fine, ancora più tragica, come quella delle nostre illusioni ‒ And all I wish is gone away.

Fabrizio De Palma

TO WISH IMPOSSIBLE THINGS

To wish impossible things è, dunque, il cuore pulsante – ardente da un lato e straziato dall’altro ‒ di un disco che in realtà di cuori ne avrebbe dovuti avere due ‒ infatti, nelle intenzioni iniziali di Robert Smith, doveva essere composto da due dischi separati: uno più allegro e uno più malinconico. Il primo (Higher) sarebbe stato più energico e guitar-oriented, mentre il secondo (Music for dreams) molto più lento, etereo e puramente strumentale.
Dalla fusione perfetta di queste due anime è nato Wish, che costituisce la quintessenza del suono dei Cure. L’oscurità della famosa trilogia dark composta da Pornography, Disintegration e Bloodflowers viene qui amalgamata con la luminosità scintillante della chitarra di Porl Thompson (il John Frusciante dei Cure). Il risultato finale è una (foto)sintesi perfetta, la formula magica per tramutare il desiderio in musica con un mix “felice-triste” (happy-sad come lo chiamano in Sing Street), che ancora oggi è considerato un marchio di fabbrica della band. Non a caso l’album rappresenterà il miglior piazzamento in classifica dei Cure: primo posto in UK e secondo posto negli USA. In alcuni casi è facilmente intuibile a quale dei due dischi originari sarebbero appartenute le canzoni in scaletta, ma, in realtà, il segreto di queste dodici tracce magiche sta proprio nella loro mescolanza e reciproca influenza.

FRIDAY I’M IN LOVE

Tra le canzoni decisamente più “happy” ci sono innanzitutto i primi due singoli ‒ ovvero Friday I’m in Love e High – seguite a ruota da Doing the unstuck, che confessa la sua fede fin dall’attacco iniziale: It’s a perfect day for letting go/For setting fire to bridges/Boats/And other dreary worlds you know/Let’s get happy!!/ È il giorno giusto per lasciarsi andare/Per bruciare i ponti/Barche/E gli altri squallidi mondi che conosci/Diventiamo felici!.
Il primo singolo dell’album, Friday I’m in Love, è la canzone dei Cure che conoscono tutti, (anche quelli che non conoscono i Cure): una sorta di brano-filastrocca dall’inconfondibile jangle chitarristico, figlio tanto degli Smiths quanto dei R.E.M., anche se qui siamo più dalle parti di Shiny Happy People, che da quelle di There is a light that never goes out. Manca, infatti, completamente quell’in(sano) tocco di romanticismo shakespeariano con cui solo Morrissey può fantasti-ca(nta)re di schiantarsi contro un autobus a due piani e morire felice e contento accanto al suo amore. Nel brano dei Cure, invece, per una volta si è incredibilmente felici di essere vivi, vivi e innamorati nonostante tutto. Non m’interessa se lunedì è triste/martedì è grigio e mercoledì pure/di giovedì non mi frega nulla/è venerdì e sono innamorato!
L’atmosfera gioiosa del brano è contagiosa, così come lo è anche e soprattutto quella del video ufficiale girato dal fido Tim Pope, che per certi aspetti è simile proprio a quello di Shiny Happy People dei R.E.M.: in entrambi c’è una situazione di festa caotica, con gente che balla in costume e abiti sgargianti, dentro una messa in scena quasi teatrale o carnevalesca, con dietro una scenografia semovibile e soprattutto con una bellissima sensazione che si trasmette quasi per osmosi: quella di lasciarsi tutte le preoccupazioni alle spalle. Ma se nel brano dei R.E.M. si tratta di una parodia, in quello dei Cure è tutto vero, come ben esemplificato dai versi che accompagnano il bridge: È una bellissima sorpresa/Vedere le tue scarpe e i tuoi spiriti volare/Buttare via le preoccupazioni/E sorridere al suono/Levigato come uno strillo/Che gira e rigira/Ne prendi sempre un bel morso. Cosa sarebbe potuta diventare questa canzone in una sua ipotetica “sad version” hanno provato a immaginarlo gli Yo La Tengo con una cover rallentata, accompagnata da un video tanto adorabile quanto inquietante (soprattutto se visto oggi), in cui la terra viene rasa al suolo da una pioggia di meteoriti a forma di cuore gigante.

HIGH


Anche il secondo singolo ‒ High ‒ mantiene “alto” l’umore della ciurma con quell’intersecarsi di tastiere e chitarre jangle che formano dei cromosomi musicali perfetti in una spirale verso il cielo, dove di fatto è ambientata la canzone e il video ufficiale della stessa: When I see you sky as a kite/As high as I might/I can’t get that high/The how you move/The way you burst the clouds/It makes me want to try/Quando ti vedo in cielo come un aquilone/così in alto come forse potrei/Non ce la faccio a salire così tanto/Come ti muovi/Il modo in cui laceri le nuvole/Mi fa venire voglia di provare.
Qui vediamo la band suonare tra le nuvole dentro quello che sembrerebbe essere il cestello di una mongolfiera, solo che non c’è nessun pallone aerostatico, ma soltanto dei piccoli aquiloni che non sanno di non poter volare ma lo fanno lo stesso. Su uno di questi finirà appeso lo stesso Robert Smith, prendendo spunto da una famosa scena del film Brazil, capolavoro distopico di Terry Gilliam dove la burocrazia è diventata talmente invadente che è vietato persino sognare. Si tratta quindi di un brano dai contorni onirici, contro le dittature (immaginarie ma anche reali) che ci impediscono di sognare ‒ ché i desideri, si sa, sono fatti della stessa materia dei sogni e a volte, come in questo caso, lo sono pure le canzoni.

A LETTER TO ELISE

Il rovescio della medaglia è rappresentato dagli altri brani che, per testo e sonorità, sarebbero potuti appartenere alla metà più triste del disco; si tratta principalmente di canzoni sulla fine delle relazioni come lo sono Apart e Trust (che è praticamente la versione musicale dell’omonimo film di Hal Hartley) e soprattutto A Letter to Elise: il terzo e ultimo singolo ispirato alle lettere d’amore scritte da Kafka alla fidanzata Felice Bauer tra il 1912 e il 1917, da non confondere (o forse invece sì?) con quelle che lo stesso scrittore boemo dedicherà qualche anno più tardi a Milena (la sua traduttrice) e che contengono frasi come “non voglio sapere cosa indossate; mi sconvolge così tanto che non riesco ad affrontare la vita” oppure “se vieni con me, salti nell’abisso”. Lo stesso abisso di malinconia e tristezza in cui ci fa precipitare Robert Smith con la sua lettera a Elise: Oh Elise it doesn’t matter what you do/I know I’ll never really get inside of you/To make your eyes catch fire/The way they should/The way the blue could pull me in/If they only would/If they only would/At least I’d lose this sense of sensing something else/That hides away/From me and you/There’re worlds to part/With aching looks and breaking hearts /And all the prayers your hands can make/Oh I just take as much as you can throw/And then throw it all away/Oh I throw it all away/Like throwing faces at the sky/Like throwing arms round/Oh Elise non importa cosa fai/So che non riuscirò mai ad entrare in te/A far incendiare i tuoi occhi/Nel modo in cui dovrebbero/Come potrebbe inghiottirmi il loro blu/Se solo volessero/Se solo volessero/Per lo meno perderei questa sensazione di sentire qualcos’altro/Che sfugge/Fra me e te/Ci sono mondi da divider/Con sguardi addolorati e cuori spezzati/E tutte le preghiere che le tue mani possono fare/Oh riesco a prendere tutto ciò che lanci/Per poi gettare tutto via/Oh gettare tutto via/Come gettare volti al cielo/Come gettare braccia attorno.
Il video ufficiale è costituito da una serie di riprese effettuate durante il soundcheck di un bellissimo concerto tenutosi nel ’93 al Palace di Auburn Hill nel Michigan. Ma tra le performance memorabili occorre menzionare anche quella della loro esibizione all’MTV Unplugged del ’91, quando il brano fu eseguito con delle liriche leggermente diverse da quelle che conosciamo, in particolare quelle della terza strofa, dove le “promesse d’amore” non erano ancora state spezzate, ma c’era una minima speranza di “scivolarci dentro” come in un sogno-desiderio: And secretly we’ll slip into all our promises/Away from it all in the cover of the night again/And we’ll watch the years fall/And we’ll dream it all back like we do.

FROM THE EDGE OF THE DEEP GREEN SEA

Infine, ci sono le canzoni che non conosce nessuno ma che sono le più importanti dell’album perché riescono a mescolare sapientemente la stessa dose di tristezza e allegria tra musica e parole, creando un unicum ancora ineguagliato nella storia della musica pop. Tra queste abbiamo, oltre ai due brani posti in apertura (Open)  e chiusura del disco (End), almeno altre due ferite profonde ancora aperte come Cut e Wendy Time, a cui si aggiunge infine l’apice assoluto di From the edge of the deep green sea, storia di fiducia e tradimento che andrebbe trascritta per intero, ma di cui lasciamo solo l’incipit e la conclusione per dare un’idea di come ci si possa spostare velocemente da un sentimento all’altro, all’interno di una canzone così come nella vita reale. Incipit: Ogni volta che lo facciamo/mi innamoro di lei/onda dopo onda dopo onda./ È tutto per lei./“So che non può essere sbagliato” dico.
Conclusione: Vorrei solo poter smettere/So che un altro istante mi spezzerebbe il cuore/Troppe lacrime/Troppe volte/Sono troppi anni che piango per te/È sempre la stessa cosa/Mi sveglio nella pioggia/Un dolore alla testa/Impiccato per la vergogna/Un nome diverso/Sempre lo stesso vecchio gioco/Amore inutile/A miglia e miglia e miglia e miglia e miglia/Lontano da casa ancora.
Il segreto del disco di maggiore successo dei Cure probabilmente è tutto qui, in questa intersezione magica di felicità e tristezza. Un segreto che può essere custodito “sul bordo di un mare così profondamente verde” oppure tra le note di copertina del disco, dove si può scovare la citazione di una poesia del poeta romantico Percy Bysshe Shelley ‒ To a skylark ‒, in cui forse c’era già tutto il senso di questo nostro dolce struggimento: Noi guardiamo in avanti e guardiamo/indietro e siamo tormentati/da tutto ciò che non è: le nostre risa/anche le più sincere, nascondono la pena/e le nostre canzoni più dolci sono quelle/che raccontano sempre il pensiero più triste/And There’s nothing else “We” Can Really do. At all.

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