Il futuro di musica e concerti post pandemia. Un’indagine

Come sarà la prossima estate senza grandi eventi musicali? E come, più in generale, il mondo della musica reagirà agli effetti della pandemia? Alex Urso lo ha chiesto ad alcune note personalità del settore.

A fronte della crisi che stiamo attraversando, come cambierà la fruizione degli spettacoli dal vivo? Quando si potrà tornare di nuovo sotto il palco? E, più in generale, quali ripercussioni avrà la situazione pandemica sull’intero comparto musicale?
Sono solo alcune delle domande (vastissime) che abbiamo rivolto a una serie di professionisti del mondo dello spettacolo: personalità che lavorano con la musica o dietro le quinte dei grandi eventi, e che stanno vivendo con ansia le incertezze di questo delicato momento. Li abbiamo contatti, chiedendo loro una riflessione sul presente e sul futuro dei live, e su quelle che dovranno essere le strategie da attuare per aiutare il settore musicale a risollevarsi dagli effetti della crisi.

Alex Urso

MATTEO ZANOBINI – MANAGER PICICCA

Un ritratto di Matteo Zanobini, manager Picicca

Un ritratto di Matteo Zanobini, manager Picicca

L’Italia ha bisogno di una riforma seria del settore musicale e del lavoro nell’ambito dello spettacolo, e questo è il momento per porne le basi. Ci sono esempi illuminanti in Europa, come il modello Francia. Il Governo dovrebbe sentire il dovere di farlo insieme a noi operatori. A oggi, 13 maggio, non ci sono indicazioni ufficiali su cosa è concesso fare nell’ambito delle rappresentazioni dal vivo. Nessuna disposizione precisa. Avere indicazioni dalla politica è basilare per pianificare il lavoro di migliaia di persone che stanno ferme in attesa di capire come organizzarsi la vita.
In estate i grandi eventi non si faranno, poiché l’assembramento è inevitabile e parte integrante dell’esperienza. Per gli eventi medio/piccoli invece è sensato pensare a una riapertura in sicurezza, ma bisogna rendere i nuovi protocolli economicamente sostenibili per gli organizzatori, scongiurando una nuova Circolare Gabrielli o sarebbe il collasso. Serve una task-force dedicata che prospetti scenari compatibili. Altre strade non ne vedo: i live in streaming? Non ci credo molto. I drive-in? Ci pensate a un artista che si esibisce davanti a una distesa di lamiere? Non credo però nemmeno ai disfattisti che dicono che non torneremo più alla normalità o a quelli che indicano date improbabili per la ripartenza.
Purtroppo c’è poca consapevolezza da parte di chi ci governa della complessità del nostro settore, fatto di professionisti, micro-imprenditoria, lavoratori intermittenti. A livello di opinione pubblica inoltre è difficile far capire che dietro agli artisti c’è una grande filiera di lavoratori da tutelare, spesso stagionali per la natura ciclica dei tour. Al momento migliaia di professionisti sono a casa senza lavoro, ammortizzatori sociali e prospettive. Senza le giuste misure di sostegno ai professionisti del settore, l’Italia rischia di perdere un grande capitale professionale. Chi non potrà permettersi economicamente di aspettare la fine dell’emergenza potrebbe banalmente cambiare lavoro. Con quali e quante competenze ripartiremo alla fine di tutto questo? Bisogna intervenire alla svelta.
Per l’emergenza e la ripartenza servono misure di defiscalizzazione, tutele sociali, supporto alle attività imprenditoriali e una riforma definitiva del settore. Queste sono solo alcune delle proposte che stiamo avanzando insieme a un coordinamento composto da lavoratori, imprenditori, artisti e professionisti della musica e dello spettacolo, che si chiama La musica che gira.

NUR AL HABASH – GIORNALISTA E CONSULENTE

I'm Not A Blonde al Reeperbahn Festival 2019

I’m Not A Blonde al Reeperbahn Festival 2019

L’emergenza Coronavirus ha privato l’industria musicale del suo cuore pulsante: i concerti dal vivo. Una situazione così paradossale ha portato in breve tempo una paralisi del settore tale da rendere evidente anche agli osservatori più distratti come i live siano una delle colonne portanti del music business. Quasi tutti i processi lavorativi della filiera sono infatti tesi al fine ultimo del concerto, sia per la sua rilevanza economica che per la sua centralità sociale come condivisione umana di un’esperienza collettiva. La sfida, anche e soprattutto per quel che riguarda l’esportazione del nostro repertorio all’estero, è ora quella di trovare delle soluzioni digitali che possano sostituire o ammortizzare, almeno sul breve periodo, la funzione del concerto. Parliamo quindi di approfondire le fonti di reddito che non dipendono dal live, le nuove modalità di monetizzazione online e le nuove strategie per ricreare la condivisione sociale tipica di un evento live.
Per riuscirci, artisti, autori e aziende dovranno investire su tre fronti. Il primo è quello tecnologico, sperimentando con nuove piattaforme e opzioni di monetizzazione senza avere paura di navigare in acque sconosciute. Il secondo è creativo: riuscire a proporre online dei contenuti di qualità che vadano oltre l’esibizione in acustico trasmessa sui social e che abbiano un valore reale per i fan, di modo che questi ultimi siano disposti a pagare per usufruirne. Il terzo ha invece a che fare con il rapporto tra artista e ascoltatori e con il rapporto che intercorre tra gli stessi fan, che può essere ulteriormente rafforzato ed esplorato nella sua componente digitale. Sono tutte strategie differenti ma che permetteranno all’industria musicale di piantare radici molto più solide, che torneranno utili anche quando l’emergenza sarà finita.

FEDERICO DRAGOGNA – MINISTRI

Una foto di Federico Dragogna. Courtesy Chiara Mirelli

Una foto di Federico Dragogna. Courtesy Chiara Mirelli

Vale la pena puntualizzare l’ovvio: quello della musica è un settore come altri, quindi trovo più che sensati i tentativi fatti per chiedere allo Stato aiuti, tutele, rispetto. Detto e ribadito ciò, mi interrogo sul perché faccia tanta fatica a essere considerato parte costitutiva della nostra società. Di certo, c’è qualcosa nello scegliere di far musica che eccede la sua funzione sociale: la si sceglie perché la si ama, non per un rapporto di domanda/offerta, non perché in qualche azienda stessero cercando cantautori. E questo piccolo narcisismo che diventa professione è stato infatti un problema nelle richieste di queste settimane, in cui quasi tutti – grandi popstar o piccole band – hanno sottolineato più che altro il dramma di tutti i tecnici rimasti a casa, la situazione critica di tutto ciò che gira attorno agli artisti. Giustamente, ma anche inevitabilmente, solo gli spettatori – ognuno pensando al proprio beniamino – possono dire abbiamo bisogno degli artisti. Viceversa sarebbe davvero stucchevole sentire un artista qualunque sostenere: avete bisogno di me. Bisogna prima di tutto salvare i tecnici quindi, che esisteranno però solo se ci saranno artisti, che lavoreranno solo se ci saranno spettatori. E allora mi chiedo: la gente ha davvero bisogno dello spettacolo?
Secoli di storia sembrano dirmi di sì, ma gli ultimi mesi sembrano dire qualcos’altro: le tecnologie a cui ci siamo affidati, dispositivi non solo individuali ma persino privati, sono capaci a loro modo di dare spettacolo e di farlo senza palchi e senza luci. Dalla fine di febbraio è in onda il “gran spettacolo della pandemia”, che si è staccato dalla sua funzione informativa per diventare una serie televisiva, con personaggi esuberanti (sindaci, virologi, dottori, gli spettatori stessi per le strade e sui balconi), colpi di scena a raffica, pipistrelli, bollettini e una capacità pervasiva insuperabile. Come può una canzone o un concerto, pur con laser e mega-schermi, battere tutto ciò? Che uno creda di far cultura o si consideri un intrattenitore, come può spostare oggi il nostro sguardo? Ripensando al mondo di prima, già instradato verso ciò, ricordo che vedevo resistenza nel ritrovarsi tutti insieme – un effetto collaterale degli eventi dal vivo che per molti è in fondo il cuore della questione, della cultura stessa. Ma se ritrovarsi tutti insieme diventa sinonimo di ansia e terrore, cosa rimane? Credo che il nodo sia tutto lì, e temo che il grande spettacolo dell’informazione continuerà a rifornirci di ansia e terrore molto a lungo, e di certo più a lungo di quanto avrebbe senso farlo.

SIMONE STEFANINI – REDAZIONE DI ROCKIT

Cosmo al MI AMI 2018 © Claudio Caprai, courtesy of Rockit.it

Cosmo al MI AMI 2018 © Claudio Caprai, courtesy of Rockit.it

Quando con la testata ROCKIT abbiamo condotto l’indagine I concerti dopo il Covid, dei quasi 15mila che hanno risposto molti non vedono l’ora e sperano quanto prima di tornare sotto il palco, altrettanti però sono impauriti e aspetterebbero volentieri il vaccino. La convinzione di quasi tutti è che se ne riparlerà nel 2021. Il problema, più che per il pubblico, riguarda però i lavoratori. Le perdite per il settore – solo per la stagione estiva 2020 – supereranno i 350 milioni di euro (fonte Assomusica). Come sappiamo, non tutti i facchini, backliner, fonici, tecnici, sicurezza, addetti al merchandising etc. hanno al momento aiuti da parte del Governo, e di fatto non lavorano da due mesi e passa. Noi abbiamo già rinviato il MI AMI Festival a settembre, consci del fatto che anche per quella data dovremmo sottostare alle direttive statali in materia di concerti, a oggi del tutto proibiti.
L’idea più plausibile che mi viene in mente è ripartire “dal basso”, con eventi sostenibili a livello sanitario e artisti dal cachet non dopato, per rimettere in moto tutta la filiera. Come hanno già affermato alcuni organizzatori, pensare che il settore dei concerti nel dopo pandemia possa avere gli stessi vizi del prima è impensabile. Negli ultimi anni, le band di fascia medio-bassa si sono quasi estinte (come la piccola borghesia), perché dopo un singolo azzeccato o un album spinto un po’ di più, i gruppi sono passati dai localini da duecento persone al tour nei palasport o nei club più grandi – con conseguente lievitazione dei costi d’ingaggio. I club di piccole e medie dimensioni, che fino a quel momento avevano vissuto con quel tipo di band, hanno iniziato a faticare a chiudere la programmazione, e si è insinuato nei tanti che suonano il germe che basti una canzone per diventare famosi. Non è così, i numeri parlano chiaro, e non dovrebbe essere quello il fine del creare arte. Per questo serve un ridimensionamento che parta anche dagli stessi artisti.
Altra questione è quella degli organizzatori di eventi, che dovrebbero presentare possibilità e soluzioni al Governo, per aiutare il settore in crisi a riprendere quota. Al momento molte band indipendenti (e non), manager, agenzie stampa, booking, studi di registrazione si trovano in grossa difficoltà ed è disincentivante vedere che, per parte dell’opinione pubblica, ciò che ruota intorno alla musica e allo spettacolo in generale è accessorio, sacrificabile, non necessario. Pensate come sarebbe stata la quarantena se non fossero esistite canzoni, film, serie tv, fumetti, videogiochi, arte in generale a tirarci su, a distoglierci per un attimo dal pensiero fisso del virus killer. Lo spettacolo va rispettato di più, personalmente ha lo stesso valore che ha la Chiesa per un credente, senza il potere politico di quest’ultima.

www.rockit.it

PAOLO MITI – DIRETTORE ARTISTICO DI MAREMOTO FESTIVAL

Una veduta del Maremoto Festival (edizione 2016). Courtesy Luca Cameli Photographer

Una veduta del Maremoto Festival (edizione 2016). Courtesy Luca Cameli Photographer

Da quello che ho potuto capire, almeno per quest’estate i concerti e, più in generale, gli eventi aggregativi – così come li abbiamo conosciuti fino a oggi – semplicemente non potranno avere luogo perché troppo alto il rischio di trasmissione del virus e troppo impreparato il sistema organizzativo per affrontare questa situazione. Credo che in questa fase si potrà solo pianificare e immaginare lo scenario futuro, senza una vera messa in opera.
Diciamo una cosa: non è che il settore dell’organizzazione di concerti se la passasse tanto bene prima della pandemia. Era già in crisi. La maggior parte dei tantissimi eventi medio piccoli (ma anche molti di quelli grandi) arrancavano. Nell’ultimo decennio sono nati e morti locali, promoter, festival come funghi ma pochissimi hanno trovato stabilità. E anche il pubblico si è atrofizzato. La pandemia ha dato il colpo di grazia. Probabilmente ci sarà una dolorosissima selezione degli operatori del settore. Chi avrà la forza e la pazienza di aspettare forse tra qualche anno tornerà a lavorare come prima. Rimarranno in piedi i più forti, quindi quelli legati alle multinazionali che hanno business diversificati e risorse. Certamente ci sarà un importante aumento dei costi organizzativi, che già prima erano molto onerosi. Di conseguenza ci sarà, da una parte l’aumento dei prezzi di ingresso (che in Italia erano mediamente più bassi rispetto ad altri Paesi europei), e dall’altro il crescente bisogno di aiuti economici e logistici da parte delle istituzioni.
Personalmente confido in una “evoluzione” del settore, che sia in grado di dare risposte diverse alla voglia di musica e di divertimento. Credo che il mondo della musica in qualche modo si adatterà. È già successo con la crisi del marcato discografico di quindici anni fa: la musica c’è ancora nonostante i catastrofismi di allora. Diversa, ma c’è! Forse è dai più piccoli che possiamo aspettarci i cambiamenti più significativi e veloci. Mi auguro che si trovino nuove forme di aggregazione e nuove possibilità organizzative. Mi aspetto una situazione che ci riporti un po’ agli anni Novanta, quando c’erano meno eventi ma più partecipati e più sentiti. In quest’ultimo decennio abbiamo assistito a una grande frammentazione dell’offerta di eventi e quindi del pubblico, e spesso questo ha influito sulla qualità.
Meno cose, insomma, ma fatte meglio!

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Alex Urso

Alex Urso

Artista e curatore. Diplomato in Pittura (Accademia di Belle Arti di Brera). Laureato in Lettere Moderne (Università di Macerata, Università di Bologna). Corsi di perfezionamento in Arts and Heritage Management (Università Bocconi) e Arts and Culture Strategy (Università della Pennsylvania).…

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