Guillermo del Toro e il suo “Frankenstein” al Festival del Cinema di Venezia 2025
Del Toro, quasi integralmente fedele al testo della Shelley, decide di ribaltare lo sguardo: la tragedia non è tanto la creazione, ma l’incapacità del creatore di accogliere la fragilità della propria opera
“Il capolavoro di Mary Shelley è pieno di domande che mi bruciano dentro l’anima: domande esistenziali, tenere, selvagge, senza scampo, come solo una mente giovane può porsi e a cui solo gli adulti e le istituzioni credono di poter rispondere”. Così Guillermo del Toro ha presentato al Lido il suo Frankenstein, film che chiude un percorso cominciato quando era bambino: a sette anni, racconta, vide per la prima volta i classici di James Whale e sentì che “l’horror gotico era diventato la mia religione e Boris Karloff il mio Messia”.
“Frankenstein” di Mary Shelley
Nato quasi per scommessa, durante un soggiorno a Villa Diodati su sollecitazione di Lord Byron, il romanzo di Mary Shelley apparve anonimo nel 1818 e fu accolto con freddezza: non insegnava alcuna morale, accusavano i critici. Oggi sappiamo il contrario, è una parabola che mette a nudo il vero mostro, Victor Frankenstein, con la sua hybris prometeica, la sua cecità emotiva, la sua ignorante protervia.
Guillermo del Toro e il suo “Frankenstein”
Del Toro, quasi integralmente fedele al testo della Shelley, decide di ribaltare lo sguardo: la tragedia non è tanto la creazione, ma l’incapacità del creatore di accogliere la fragilità della propria opera. Il suo film è la celebrazione della sensibilità della creatura, figura eccentrica e disfunzionale, ma proprio per questo portatrice di verità. Se Frankenstein è “il moderno Prometeo” (era il sottotitolo del romanzo) che ruba il fuoco a Zeus, la Creatura diventa l’innocente che arde di quella fiamma e la restituisce al mondo come mistero. “Per me – ha aggiunto Del Toro – solo i mostri detengono la risposta a tutti i misteri. Sono loro il mistero”.
Guillermo del Toro e il suo “Frankenstein” al Festival del Cinema di Venezia 2025
Accanto alla potenza concettuale, c’è la realizzazione visiva: del Toro torna al Lido con un’opera sontuosa, che unisce l’immaginario gotico a un artigianato cinematografico di altissimo livello. Accanto a lui, un team che include Dennis Berardi agli effetti speciali, già collaboratore ne La forma dell’acqua (un Leone d’Oro e due Oscar nel 2017-8). Alla fotografia Dan Laustsen, storico complice del regista, al montaggio Evan Schiff, capace di dare ritmo e respiro a un racconto che alterna intimità e grandiosità visiva; la scenografa Tamara Deverell costruisce ambienti gotici e visionari come vere cattedrali della psiche; i costumi di Kate Hawley coniugano fedeltà storica e immaginazione fiabesca; e infine la musica di Alexandre Desplat, che tesse un tessuto sonoro di lirismo e inquietudine, dando voce alla creatura e al suo silenzio. Non stupisce che il regista insista: “oggi i film si giocano su due piani, fondamentalmente: quello delle idee e quello della fattura artistica”. Il suo Frankenstein è entrambe le cose: un film di idee, ma anche un’opera d’arte nel senso più fisico, scolpita nella luce, con molte carni e molti disegni anatomici e pile ante litteram che dovrebbero trasformare il dolore in speranza. Non è questo che promette il progresso? Con questo nuovo capitolo, del Toro riporta Frankenstein alle sue origini: un libro nato da un incubo fatto dall’autrice una notte, in quei primi anni dell’Ottocento in cui la febbre del progresso, era vissuta con paura dai cuori romantici. Il galvanismo, era allora la nostra IA. Oggi, la scarica filmica di Guillermo del Toro riattiva questo mito letterario come parabola universale, sempre attuale.
Nicola Davide Angerame
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