Wes Anderson e il capitale impunito. A Cannes arriva The Phoenician Scheme
Il favorito della kermesse affresca un film-dipinto a tinte pastello e sfumature nere, narrando le bizzarre avventure di un tycoon europeo e della figlia suora in un mondo da videogioco vintage. Tra scenografie minuziose, cast stellare e la malinconica riflessione sul potere, il film adotta una estetica slapstick

Gustando i titoli di coda di The Phoenician Scheme, quando scorrono uno a uno i dipinti apparsi nella collezione privata di “Zsa-Zsa” Korda, magnate europeo da fumetto postbellico, viene il sospetto che Wes Anderson non stia più solo facendo cinema, ma pittura in movimento. Pittura metafisica, caramellosa, geometrica. Pittura narrativa, certo, ma se togliessimo il sonoro resterebbero dei tableaux vivant che ricordano Alex Katz o le astrazioni psicologiche e malinconiche di David Hockney. Turchesi, rosa, lillà, marroni chiari: una tavolozza da sogno infantile, ma dal retrogusto venefico.
La storia de “La trama fenicia”
La storia de La trama fenicia è semplice e meccanica: un uomo potentissimo, interpretato da un Benicio del Toro sornione e livido, sopravvive a un attentato e decide di ricongiungersi con la figlia, una suora (Mia Threapleton), che vive chiusa in un convento come fosse la protagonista di un romanzo gotico americano. La vuole accanto a sé per trasformarla in erede: non morale, ma strategica, cinica, adattiva. Si parte così per un viaggio episodico che ricorda la struttura a livelli di un videogioco vintage: ogni nuova location (una nave, un albergo, una miniera, un casinò) è una scatola da scarpe con dentro un enigma, un cattivo e un inganno da decifrare. Si sale di livello ma non si cresce mai.
Un cast stellare e una spinta malinconica per l’ultimo film di Wes Anderson
Parlare delle interpretazioni è difficile, e forse anche inutile. Anderson sovraccarica tutto: dialoghi, posture, accessori, dettagli. Gli attori, dai veterani Scarlett Johansson, Tom Hanks, Mathieu Amalric, Jeffrey Wright, Bryan Cranston e Benedict Cumberbatch al debutto cromatico di Michael Cera, sono burattini impeccabili in un meccanismo millimetrico. Ma l’effetto è quello del cinema muto slapstick: cadute, scoppi, inseguimenti, colpi e sanguinamenti assurdi, tutti giocati con una freddezza à la Buster Keaton e incapsulati in un universo pastello.
Eppure, dietro il pastiche visivo, pulsa una malinconia feroce. Korda è un capitalista da commedia nera, che ha costruito il suo impero con bugie, frodi, omicidi per interposta persona. Un tycoon disegnato con eleganza, ma intriso di un orrore sistemico: quello di ogni grande iper-ricchezza che, come tale, si fonda sull’ingiustizia, e tuttavia scivola via da ogni responsabilità. “Il punto di partenza era cercare di inventare qualcosa su uno di quei magnati europei degli Anni ’50, come Onassis o Niárchos”, dichiara Anderson. Le scenografie e gli oggetti di scena meritano un discorso a parte: dalle miniature perfette ai modellini di navi da crociera, dai gadget high-tech d’antan agli armadi zeppi di valigette con codici segreti, ogni dettaglio è calibrato per trasformare lo spazio in un dipinto interattivo.
Il cinema di critica di Wes Anderson (forse la volta buona a Cannes?)
The Phoenician Scheme è il quarto film di Anderson che viene invitato in concorso a Cannes e questa volta dovrebbe essere quella buona. Il film segna anche il quinto sodalizio alla sceneggiatura con Roman Coppola, compagno di visionaria esplorazione formale che, come al solito, anche questa volta non offre soluzioni. Anderson non fa cinema civile, ma accenna con il suo tipico ghigno malinconico a una verità: la nostra incapacità di pensare la ricchezza in termini filosofici. Di porre, una volta per tutte, la questione del limite. Una legge mondiale sul tetto alla ricchezza personale? Utopia. Intanto ci accontentiamo del cinema, quello schematico e coloratissimo di Anderson che, come Arlecchino, sembra dire la verità scherzando.
Nicola Davide Angerame
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