La serie dell’anno è Squid Game. Una riflessione

Vista da più di cento milioni di persone, celebra il coraggio non tanto di giocare ma di ascoltare

Alla fine di un anno migliore perché abbiamo i vaccini ma peggiore perché psicologicamente siamo sfiniti, gran parte della nostra “non esistenza” l’abbiamo vissuta insieme a film e serie guardati su schermi di ogni dimensione. Così oggi alla fine dobbiamo premiare idealmente la serie che ha vinto perché ci ha fatto compagnia, la vera artefice dell’ultima forma di esperienza, nell’immobile mondo pandemico almeno per 111 milioni di utenti in più di 90 paesi: grazie a Hwang Dong-hyuk, il regista di Squid Game laureato all’University of Southern California di Los Angeles, la stessa di Spielberg e Lucas, che ha creato il survival-game-serie Netflix più visto di sempre.

SQUID GAME E I NOSTRI SENSI

E già qualcuno chiama Squid Game il survival game che stiamo vivendo tra contagi, tamponi, quarantene: ogni giorno un parente, un collega, un amico cade lasciandoci attaccati al nostro referto immuni chissà fino a quando. Ma non è questo scontato richiamo a decretare il successo della serie che ha vinto la Breakthrough Series – Long Format ai Gotham Awards 2021, nominata per i Critics Choice Awards, gli Afi Awards e la Rose d’Or che concorrerà anche ai Golden Globe per la Migliore serie televisiva. Sono già avviate le trattative per la seconda e terza serie sempre con Netflix. Nel panorama delle serie dove oramai distinguiamo stili tra i nordici vulcani islandesi, poliziotti svedesi, fantasy polacchi o gli spagnoli incartati, i francesi e le loro commedie, ancor poco noi italiani (ma vedremo Zerocalcare come andrà nel mondo), i sudcoreani hanno un ruolo così chiaro che non lascia posto ai paurosi.

IL CASO SQUID GAME

Il caso Squid Game ne è, insieme ad altre serie forse ancora più paurose, la sintesi perfetta, l’esempio di una cultura capace di camminare su terreni per noi dimenticati dopo anni di reality e competizioni falsate di talenti bugiardi. Tra chi lo ha liquidato tacciandolo addirittura come pericoloso a noi, al contrario, sembra opportuno come un perfido maestro, siamo tra chi ci ha visto positivi legami con altri narratori disturbanti.
Come ha detto Mario Sesti su Micromega con un articolo dal titolo Squid Game: i nuovi orrori del capitalismo e l’ombra di Pasolini: “Lo scrittore poeta regista più acuto e feroce critico della mutazione antropologica indotta dal capitalismo alla contemporaneità, non avrebbe certo perso la chance di commentare questo inferno che lui aveva già teorizzato quasi 50 anni fa”.  Alla pandemia, al ricordo dell’orrore di Salò, si aggiunge un altro elemento fondamentale, la favola. La favola antica, tra mitologia e narrazione popolare, una storia dove vittime e carnefici si muovono solo con la violenza, dove non esiste giustizia o ingiustizia ma solo la sopravvivenza rappresentata nell’incubo del gioco infantile.

DA PARASITE A SQUID GAME

La verità dell’immaginazione scioccante che ci aveva già sconvolto con Parasite qui diventa esplicitamente gioco, dove le regole sono quelle dettate dai debiti e dalle bugie, colpe imperdonabili per una cultura così diversa dalla nostra protetta dal perdono e dalle trasposizioni disneyane. Forse il successo sta proprio nel saper mettere alla prova di ascoltare una storia così tremenda, come le favole vere quelle che facevano paura perché servivano a diventare grandi.  Il legame con Pasolini sta anche in questa riconoscenza alla narrazione popolare, alla vicenda non più fantasy ma realmente fiabesca. Madri povere che vendono il pesce povero nella carta di giornale, ladri brutti, ragazzine che devono salvare un fratello abbandonato in orfanotrofio sono i personaggi delle favole popolari di una volta, non c’è nulla di bello, anzi. Sono tutte storie che non vorremmo sapere mai, perché c’è tanto squallore oltre alla paura, e invece diventano il fenomeno degli ascolti di quest’anno. Sicuramente c’è un principio “omeopatico” per cui alzando l’effetto su di noi di qualcosa cancelliamo il problema primario, era Stephen King che diceva che scrivere storie così terrificanti lo aiutava a superare le sue paure.
Non sappiamo se l’effetto continuerà, se avremo ancora bisogno di dimenticare i nostri problemi guardando le tragedie altrui, chissà chi premieremo tra un anno, chissà se continuerà il gioco, rischiando di durare troppo, o cambierà la storia.

– Clara Tosi Pamphili

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Clara Tosi Pamphili

Clara Tosi Pamphili

Clara Tosi Pamphili si laurea in Architettura a Roma nel 1987 con Giorgio Muratore con una tesi in Storia delle Arti Industriali. Storica della moda e del costume, ha curato mostre italiane e internazionali, cataloghi e pubblicazioni. Ideatrice e curatrice…

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