Donne, madri, emancipazione nella prima giornata di Venezia 76: il diario di Mariagrazia Pontorno

Come di consueto torna il diario di Mariagrazia Pontorno dal Lido dove si sta svolgendo la 76. edizione della Mostra Internazionale del Cinema. Ecco cosa è successo durante la prima giornata

PELICAN BLOOD

Pelican Blood

Pelican Blood

Sin dalla mattina, nella fila per il film d’apertura di Kore Eda, si parla di Pelican Blood, film d’apertura della sezione Orizzonti. I coraggiosi che hanno affrontato la prima proiezione delle 8.30 dicono ogni bene dell’opera seconda di Katrin Gebbe, classe ’83. “Da tremare per tutti i 100 minuti”, “una pugnalata”. Insomma, i  metri percorsi sino alla poltrona e i 30 secondi della sigla di Venezia.76 servono per metabolizzare l’idea di vedere un film che parte come drammatico, e si trasforma dapprima in thriller e poi in horror. Nina Hoss, la bravissima protagonista, è Wiedke, madre single della piccola Nikolina e addestratrice di cavalli. Il suo lavoro, compromesso perfetto di sacrificio e libertà, è co- protagonista della pellicola, così già nelle prime scene il riflesso del freddo tramonto del nord sfiora le criniere degli animali e illumina il volto della donna, prefigurando la tragedia che incombe.  La vita regolare del piccolo ed equilibrato nucleo familiare viene infatti  stravolto dall’arrivo di Raya, la bimba di cinque anni adottata da Wiedke, un atto d’amore che presto diventerà prova di coraggio e dedizione sovrumana, al pari del pellicano del titolo, che resuscita i suoi piccoli col proprio sangue, procurandosi di proposito una ferita col becco. Raya  soffre di un grave disturbo dell’affettività, non riesce a provare emozioni e la sua amigdala si è addirittura modificata in reazione a un trauma subito nei primi mesi di vita. L’esistenza di Wiedke è provata dai comportamenti violenti della bambina, che creano problemi con la rete sociale e lavorativa della donna, trascinandola in una angoscia condivisa con lo spettatore. A nulla valgono le consulenze mediche e il tentativo di ricovero in una clinica, tantomeno l’amore infinito di una madre disposta ad assumere farmaci per allattare e portare Raya in giro con una fascia per neonati, tutti gesti fuori tempo che cercano di restituire alla piccola l’infanzia negata. La disperazione la porterà a rivolgersi all’occulto e alla magia nera, con esiti che non riveliamo per evitare lo spoiler. È proprio questa parte finale, costellata da rituali e derive esoteriche scollate dalla struttura robusta e convincente del resto della pellicola, a convincere meno e indebolire un film che, come il pellicano, sanguina e non vola.  All’uscita dalla sala Darsena ci sono dei carabinieri a cavallo, e per un attimo sembra una coreografia di lancio di Pelican Blood.

LA VERITÈ

La vèritè

La vèritè

Per un caso singolare nella stessa giornata la maternità, in maniera antitetica a Pelican Blood, è protagonista pure de La Veritè pellicola di Hirokazu Kore Eda, che per il suo esordio “straniero” (girato in Francia con un cast internazionale) pone l’attenzione sul rapporto tra celebrità e affetti familiari. Il film oltre ad essere un omaggio a Catherine Deneuve, che di fatto interpreta se stessa limitandosi a cambiare nome in Fabienne  (per l’occasione Kore Eda si è ritrovato un ricco corredo di oggetti di scena: foto, locandine, premi) è una indagine sull’egoismo autoriferito, caratteristica frequente (a dire  della protagonista addirittura necessaria) dell’essere Diva, spesso in grado di compiere imprese nei territori artistici e inadeguata o incapace di mettere le stesse energie nella relazione con i figli. Leggero e fluido, perfettamente francese (anche girato da un giapponese), La Veritè è il film ideale per aprire la mostra, eppure l’opera di  Kore Eda, forse per il lost in translation,  risulta un esercizio di stile riuscito ma ben lontano  dalle epopee familiari a cui il grande regista ci ha abituato vincendo anche la Palma d’Oro nel 2018.

THE PERFECT CANDIDATE

The perfect candidate

The perfect candidate

Questa prima giornata è sicuramente donna: le pellicole d’apertura delle maggiori sezioni per tema e cast, il saluto dei presidenti delle giurie Lucrecia Martel, Susanna Nicchiarelli, Costanza Quatriglio. Il trend continua pure con il secondo film in concorso, che seppure in sordina rispetto ai due precedenti, lascia il segno sottolineando la forza prorompente delle cinematografie giovani in territori difficili. Si tratta di The Perfect Candidate di Haifaa Al Mansour, prima regista donna Saudita. La storia di Maryam è eroica e autentica, priva degli artifici e delle nevrosi occidentali: una giovane donna laureata in medicina, che decide di candidarsi al suo municipio per migliorare le condizioni della cittadina di appartenenza (in particolare asfaltare la strada davanti l’ospedale) e che con determinazione, nonostante abaya e niqab, si destreggia con maestria in un universo solo maschile, per affermare la dignità della sua persona prima ancora che il suo essere donna. Ancora nel 2007 (esperienza personale fatta dalla sottoscritta in occasione di una mostra) le donne in Arabia Saudita non potevano guidare, lavorare, erano soggette alla tutela del marito, padre o fratello, di fatto non esistevano. A distanza di un decennio, grazie anche al prezioso supporto della tecnologia e della rete, e al potere salvifico dell’arte, il processo di emancipazione ha avuto una accelerazione insperata: il film è costellato da clip youtube, videochiamate, smartphone, telecamere, raccontati come strumenti di rottura e di libertà, vicini allo spirito con cui i pionieri del web hanno immaginato la rete e le sue implicazioni sociali (ben lontani dagli scenari di controllo, evasione e dipendenza che dilagano in Occidente). The Perfect Candidate è vero e puro cinema che irrompe e deflagra nello sguardo tenendo incollati alla poltrona sino all’ultimo frame, per seguire la macchina blu di Maryam che si incanala con piglio sportivo nel traffico di auto bianche, proprio sulla strada finalmente asfaltata.

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