Ai cancelli dell’eternità. Vincent van Gogh secondo Julian Schnabel

Il pittore olandese rivive nella pellicola di Julian Schnabel, che ne restituisce l’immagine evitando le trappole della verosimiglianza.

Un ramo di mandorlo dentro un bicchiere. Un pesco in fiore. Girasoli secchi che si afflosciano sul tavolo. Un seminatore al tramonto, col capo cinto dal sole, l’oro del cielo cola sui tetti delle case alle sue spalle. E poi campi di grano, tantissimi, il bronzo delle spighe dipinto con energia bestiale. Sono questi i primi quadri che Vincent van Gogh realizzò ad Arles, nel 1888. Lasciò Parigi, i Salon, il gruppo degli impressionisti – che pure ammirava –, non era a suo agio nelle animate discussioni dei caffè, nei caotici viali cittadini. Ai boulevard preferiva l’argento antico degli uliveti, le lunghe file di salici gli ricordavano l’Olanda. Sentiva il bisogno di dipingere immerso nella natura, sotto la volta del cielo. Ad Arles affinò la sua tecnica, fatta di pennellate materiche, contorni incisivi come nelle stampe giapponesi che tanto amava. Colori vividi, luce scoppiata che inonda ogni tela.
Proprio dal trasferimento ad Arles prende avvio At Eternity’s gate di Julian Schnabel, presentato alla 75esima Mostra del Cinema di Venezia. Accostarsi alla figura di van Gogh è sempre un rischio. Siamo ormai abituati al Campo di grano con volo di corvi stampato su tazzine, maglie, tovagliette da cucina, alle notti stellate che orbitano sui soffitti nelle frequenti esposizioni multimediali. Una qualsiasi grossa catena di arredamento ci propone la Terrazza del caffè in formato 20 x 30 cm da appendere nei nostri salotti. Di van Gogh si sono occupati studiosi, scrittori, psicoanalisti – da Karl Jaspers a Martin Heidegger, da Irving Stone ad Antonin Artaud, solo per citarne alcuni; innumerevoli sono i film e le esposizioni a lui dedicati (la Tate Britain ha annunciato una grande retrospettiva per marzo 2019). È ancora possibile dire qualcosa di nuovo su questo artista?

L’ENERGIA DEL PITTORE

Schnabel, pittore lui stesso, rifiuta la rigorosa verosimiglianza – basti pensare alla lingua francese, abbandonata dopo i primi minuti del film – e punta su una personale reinvenzione della figura di van Gogh. La macchina da presa si muove libera e nervosa fra i campi di girasoli, indugia sulla terra, sui pavimenti, sugli zoccoli consunti, sprofonda nei dipinti e nel volto di Willem Dafoe (la cui interpretazione intensa gli è valsa la Coppa Volpi). Le situazioni sono appena accennate, le scene di vita si succedono con un ritmo vorticoso: assistiamo alla difficile convivenza con i cittadini di Arles, all’arrivo e alla dolorosa ripartenza di Paul Gauguin, al primo ricovero in ospedale (a seguito della tragica lite) e al secondo ricovero nel manicomio di Saint-Remy. Più che tracciare una fedele biografia di van Gogh, a Schnabel interessa trasmettere l’energia del pittore, lo stato febbrile in cui viveva e dipingeva, la sua solitudine straziante. Una solitudine interrotta solo dalla ricca corrispondenza con il fratello Theo, a cui raccontava sogni e difficoltà, i quadri che aveva solo immaginato. “Vorrei esprimere il pensiero di un cervello con lo splendore di un tono brillante contro uno sfondo scuro, vorrei esprimere la speranza attraverso le stelle, l’ansia di un cuore con una luce crepuscolare” [Vincent van Gogh al fratello (Arles, 1888), citato in John Rewald, Dopo l’impressionismo, Firenze, Sansoni, 1995].

Julian Schnabel, At Eternity's Gate (2018)

Julian Schnabel, At Eternity’s Gate (2018)

LE LETTERE A THEO

Proprio delle lettere Schnabel si serve per costruire i dialoghi con i dottori, il prete del manicomio (magistralmente interpretato da Mads Mikkelsen) e gli altri personaggi del film, dando così umanità e concretezza alla figura di van Gogh ed evitando facili celebrazioni.
Se il pittore olandese usava un campo di grano o un vecchio paio di scarpe per raccontare “qualcosa di intimo, immensamente antico”, Schnabel si serve di van Gogh per suggerire un discorso più ampio sul senso dell’arte e dell’esistenza. Nei quadri come sullo schermo le secche radici degli alberi sono impregnate di vita e morte insieme, le stelle e i corvi e i cipressi si rincorrono in un eterno turbinio; i campi bruciati dal sole sono il ritratto “di un battito di cuore scoppiato” [Antonin Artaud, Il volto umano, 1947, prefazione al catalogo Ritratti e disegni di Antonin Artaud, 4-20 luglio 1947, Galerie Pierre, Parigi], trasmettono la vitalità disperata di uomo che si trova, come nel quadro del 1890 che da cui prende titolo il film,  sulla soglia dell’eternità. Il sud della Francia rappresenta il limite estremo di un’arte e di una vita tese nella ricerca verso l’assoluto, quell’alta nota gialla che van Gogh non poteva trovare nella caotica vita cittadina. Ed è lì, in quei campi inondati di luce, che si consumerà, fino all’ultimo dei suoi giorni.
Scrive al fratello Theo nel 1888: “Molti operai nelle fabbriche o nei negozi hanno avuto un’infanzia pura e pia, ma la vita cittadina spesso porta via ‘la prima rugiada del mattino’: resta il desiderio struggente della ‘vecchia, vecchia storia’, e il fondo del cuore resta il fondo del cuore” [Vincent van Gogh al fratello (Arles, 1888), citato in Vincent Van Gogh: campagna senza tempo, città moderna, a cura di Cornelia Homburg, Milano, Skira, 2010].

Giulia Oglialoro

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Giulia Oglialoro

Giulia Oglialoro

Giulia Oglialoro (1992) si è laureata a pieni voti in Storia dell’Arte all’Università di Bologna con una tesi sulla ricerca identitaria di Claude Cahun tra scrittura e fotografia. Ha collaborato con il centro di ricerca teatrale Laboratorio41 di Bologna, ha…

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