Di cosa ha paura il cinema italiano? 2017, annus horribilis con pochi incassi
Il 2017 è stato un anno nero per il cinema italiano soprattutto per gli incassi al botteghino dei film prodotti nel nostro paese. L’analisi dell’annus horribilis per i film italiani
I numeri del cinema italiano nel 2017 sono chiari e raccontano uno dei momenti peggiori negli ultimi cinque anni. Perché il made in Italy non funziona? Secondo i dati dell’Associazione Nazionale Industrie Cinematografiche, Audiovisive e Multimediali (Anica), le pellicole italiane hanno perso il 46,35% del box office e il 44,21% dei biglietti rispetto al 2016. Sempre secondo i dati, L’ora legale di Ficarra e Picone e Mister felicità di Alessandro Siani sono i migliori film italiani del 2017. Entrambi si fermano appena sopra i 10 milioni di euro e sono usciti nelle sale nel mese di gennaio. A voi le conclusioni. Le attenzioni del grande pubblico sono rivolte agli Usa e ai prodotti Hollywoodiani. E su questo non c’è alcun dubbio. L’anno scorso il film più visto nel nostro Paese è stato il live action La bella e la bestia di Walt Disney, ma con un risultato tra i più bassi per i primi posti: solo 20,5 milioni di euro. Seguono Cattivissimo me 3, Cinquanta sfumature di nero, Fast & furious 8, It, Star Wars: Gli ultimi Jedi, Assassinio sull’Orient Express e Pirati dei Caraibi – La vendetta di Salazar.
COSA GUARDANO GLI ITALIANI
Da qui si possono intuire i principali interessi degli spettatori: dalle saghe di successo ai remake fino all’animazione. Il pubblico vuole quindi più intrattenimento, e non divertimento. Il cinema italiano negli ultimi anni, lasciando da parte alcuni titoli forse anche un po’ “indipendenti” come Non essere cattivo di Claudio Caligari o Il capitale umano di Paolo Virzì, punta sempre più su commedie o su piccoli film molto interessanti in cui però non si crede mai troppo (ne è un esempio Dove cadono le ombre di Valentina Pedicini, straordinario esempio di matura visione registica per una storia non semplice da raccontare). Se i buoni prodotti e le buone idee ci sono, di cosa ha paura il nostro cinema? C’era un tempo, non poi così lontano, in cui facevamo strada a quello internazionale. Un tempo in cui le storie di vita, quella vera, venivano portate sul grande schermo fornendo momenti di conoscenza, di coscienza, di confronto e di importante verità (Le mani sulla città tra tutti). Quei film che avevano alla regia o alla scrittura Francesco Rosi, Elio Petri, Mario Monicelli, solo per citare alcuni dei personaggi che hanno fatto grande la nostra tradizione cinematografica. Quei film che avevano la capacità di intrattenere, di raccontare e di scuotere anime e “palazzi”.
ARIDATECE IL NEOREALISMO
Era il tempo del cinema reale e civile, che tutto il mondo ci invidiava e che faceva incasso. “Il Neorealismo, se non è inteso come vasta esigenza di ricerca e di indagine, ma come vera e propria tendenza poetica, non ci interessa più (…) Occorre fare i conti con i miti moderni, con le incoerenze, con la corruzione, con gli esempi splendidi di eroismi inutili, con i sussulti della morale: occorre sapere e potere rappresentare tutto ciò”, diceva Petri e aveva ragione. Fare i conti con i miti moderni è forse la chiave perfetta per il cinema italiano attuale. Di questi si servono Gennaro Nunziante, Massimiliano Bruno, Paolo Genovese, ma perché non convincono pienamente il grande pubblico? L’industria cinematografica teme la sala e il box office e forse per questo non sperimenta, non scava a fondo, non racconta storie come una volta. In Italia, oggi, fare un film come Three Billboards outside Ebbing, Missouri sarebbe impensabile, un film forte, tra western e dark-comedy, con interpreti grandiosi e una regia graffiante. E chi lo avrebbe detto che proprio in Italia Tre manifesti avrebbe fatto, in soli 4 giorni e con 160 copie circa, più di 800.000 euro? Per quanto riguarda i nostri, il pubblico sovrano sceglie Beata Follia di Carlo Verdone, da due settimane in vetta agli incassi. Quindi il made in Italy funziona solo se fa ridere? Forse sì.
LA VITA È BELLA
Eppure il maggiore incasso italiano di sempre è La vita è bella di Roberto Benigni con 204.378.260 €, non certo un film frivolo o di intrattenimento. Tempo fa la rivista Ciak è uscita con una inchiesta a riguardo coinvolgendo i lettori e ne è risultato che lo spettatore è molto più esigente e attento di quanto si possa immaginare: nota il ripetersi continuo di temi e stereotipi, le solite facce, la scarsa qualità dei prodotti che non riescono a reggere il confronto con le serie tv. Un dato straniante è la distribuzione: in molti luoghi del Paese i film italiani non arrivano proprio. Nell’era della pubblicità, anche troppo fuorviante, perché non si prevede una intelligente e competitiva campagna di marketing per le sale cinematografiche? Nel 2018 il prezzo del biglietto, seppur troppo alto rispetto a qualche anno fa, è un argomento ben superato e dietro al quale i “grandi” produttori e distributori a volte si nascondono. Se un film è valido, originale, punta ad un cast vario e anche nuovo e si occupa di comunicare con il territorio e in un periodo di tempo non strettissimo i risultati si ottengono, e Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti ne è la prova più recente, insieme a Mine di Fabio&Fabio (Fabio Guaglione e Fabio Resinaro).
ALLA RICERCA DEI DIVI
Tra le testimonianze arrivate a Ciak: “il cinema italiano deve ritrovare i generi e un divismo”. Sul concetto di “divismo” si potrebbe a lungo dibattere. La ripetitività di storie, volti, messaggi annoia lo spettatore. Forse il cinema italiano ha paura di sé stesso. Una paura che parte dell’alto, quasi una “dittatura bianca” nella settima arte. Un noto regista ha detto: “si ha paura di fare o di proporre perché forse si ha paura poi di non lavorare più”. Bisognerebbe rifletterci.
– Margherita Bordino
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati