Blade Runner 2049. Un futuro-passato

Molto atteso sui grandi schermi, “Blade Runner 2049” ha un po’ deluso le aspettative. Ma è comunque emblema del nostro tempo.

Denis Villeneuve, Blade Runner 2049 (2017)
Denis Villeneuve, Blade Runner 2049 (2017)

Non è un bel film, ma è un film importante. Pur avendo dei grossi difetti strutturali (soprattutto nella scrittura, nella costruzione del racconto) è un’opera che dice molto di questo tempo – e del suo rapporto con il tempo – anche al di là delle proprie effettive intenzioni. Innanzitutto, un film di fantascienza parla del futuro, giusto? Sbagliato, almeno in questo caso. Perché Blade Runner 2049 di Denis Villeneuve è tutto “interno”, per così dire, a un futuro cinematografico e finzionale – quello cioè del film originale, distante trentacinque anni nel passato. Sono quella proiezione, quell’avanzamento a essere sviluppati – non il nostro, reale, presente.Certo, ci sono gli ologrammi (innamorati), i messaggi visualizzati nel vuoto, le onnipresenti pubblicità animate che rifanno e riproducono i nostri dispositivi e i nostri ecosistemi digitali. Ma non c’è un autentico scarto, un autentico spostamento in avanti in una condizione differente e altra, aliena rispetto a quella di cui facciamo esperienza ogni giorno. Questo tipo di nostalgia molto sofisticata, proiettata in avanti invece che indietro, e che consiste nell’immaginare la Los Angeles del 2049 a partire dal 2019 del film originale, se da una parte conferisce all’opera contemporanea e alla sua visione una specifica qualità ipnotica, anche piacevole se volete, dall’altra certamente ci sta comunicando in maniera abbastanza perentoria quanto oggi sia difficile e periglioso immaginare e rappresentare il futuro: un futuro.

Denis Villeneuve, Blade Runner 2049 (2017)
Denis Villeneuve, Blade Runner 2049 (2017)

UN’ECO PROLUNGATA

Quello che vediamo nel film è infatti uno strano futuro-passato (che a sua volta amplifica a dismisura il “retro-futurismo” del film di Ridley Scott): più che vederlo, ne facciamo esperienza. Ci immergiamo in questi scenari urbani che riflettono fedelmente (come copie?), migliorandoli digitalmente, quelli del 1982; se di Rick Deckard pian piano scoprivamo la possibilità recondita che potesse essere un androide, l’agente K – avvolto in cappotti molto simili a quelli del suo predecessore – dichiara fin da subito, con un bip che lo sveglia in maniera innaturale nelle primissime scene, la sua natura artificiale, per poi lasciarci addentrare pian piano nella sua identità ibrida, irrisolta, ambigua (quindi umana); e un po’ tutto il film, con i suoi elementi e le sue ambientazioni – dalle fattorie-colture alla Las Vegas desertificata – consiste in un’eco prolungata, un gioco di specchi che replica la portata iniziale.

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Denis Villeneuve, Blade Runner 2049 (2017)
Denis Villeneuve, Blade Runner 2049 (2017)

LONTANI DAL FUTURO-FUTURO

Rimane fuori, per sempre, il vero punto di origine, quel Ma gli androidi sognano pecore elettriche? (Do Androids Dream of Electric Sheep?) pubblicato nel 1968 da Philip K. Dick, che racchiude ancora oggi un nucleo portentoso, povero, intoccato di futuro-futuro perfettamente funzionante e destabilizzante, a patto di riattivarlo sul serio e di aprirsi in maniera incondizionata a esso: “Silenzio. Riverberava come un bagliore dalle pareti e dai pannelli di legno; lo percuoteva con una tremenda energia assoluta, come se venisse generato da un’immensa turbina. Saliva dal pavimento, dalla consunta moquette grigia. Si sprigionava dagli elettrodomestici rotti o semiguasti della cucina, macchine morte che non avevano mai funzionato da quando Isidore era andato ad abitare quella casa. Stillava dall’inutile lampadario in salotto e andava a mischiarsi a se stesso, ad altro silenzio che calava dal soffitto macchiato di mosche. Riusciva in effetti a emergere da qualsiasi oggetto vi fosse nel campo visivo di Isidore, come se il silenzio volesse sostituirsi a ogni cosa tangibile. Quindi assaliva non solo le orecchie, ma anche gli occhi; in piedi davanti al televisore inerte, Isidore percepì il silenzio visibile e, a modo suo, vivo. Vivo! Ne aveva spesso avvertito l’austero avvicinarsi in precedenza; quando arrivava gli esplodeva in casa senza alcun rispetto, evidentemente incapace di attendere. Il silenzio del mondo non riusciva a tenere a freno la propria avidità. Non poteva aspettare ancora. Non quando aveva già virtualmente vinto”.

Christian Caliandro

Articolo pubblicato su Artribune Magazine #40

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Christian Caliandro
Christian Caliandro (1979), storico dell’arte contemporanea, studioso di storia culturale ed esperto di politiche culturali, insegna storia dell’arte presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. È membro del comitato scientifico di Symbola Fondazione per le Qualità italiane. Ha pubblicato “La trasformazione delle immagini. L’inizio del postmoderno tra arte, cinema e teoria, 1977-’83” (Mondadori Electa 2008), “Italia Reloaded. Ripartire con la cultura” (Il Mulino 2011, con Pier Luigi Sacco), “Italia Revolution. Rinascere con la cultura” (Bompiani 2013) e "Italia evolution. Crescere con la cultura (Meltemi, 2018). Cura su “Artribune” le rubriche inpratica e cinema; collabora inoltre regolarmente con “La Gazzetta del Mezzogiorno”, “minimaetmoralia”, “che-Fare”. Ha curato mostre personali e collettive, tra cui: “The Idea of Realism // L’idea del realismo” (2013, con Carl D’Alvia), “Concrete Ghost // Fantasma concreto” (2014), entrambe parte del progetto “Cinque Mostre” presso l’American Academy in Rome; “Amalassunta Collaudi. Dieci artisti e Licini” presso la Galleria d’Arte Contemporanea “Osvaldo Licini” di Ascoli Piceno (2014); “Sironi-Burri: un dialogo italiano (1940-1958)” presso lo spazio CUBO (Centro Unipol Bologna, 2015); “RIFTS_Abate, Angelini, Veres” (Artcore, Bari 2015); “Opera Viva Barriera di Milano” (Torino 2016); “La prima notte di quiete” (i7-ArtVerona, 2016). Dirige la collana Fuoriuscita per Castelvecchi editore. Ha recentemente pubblicato il saggio "L'Arte Rotta" (2022).