Moda, etica e sostenibilità

Sfruttamento, scarsa attenzione al riuso dei materiali e consumi poco improntati all’etica sono aspetti che riguardano anche il mondo del fashion. Una serie di iniziative ed esempi virtuosi combatte questo trend.

Il 24 aprile del 2013 persero la vita 1.130 persone e 2.500 rimasero ferite nel crollo di una fabbrica di abiti a Rana. Quella del Bangladesh pare sia l’industria più criminale, piena di sfruttatori, tanto da contare dal 2002 al 2012 più di 500 morti ufficiali fra i lavoratori tessili.
Il ricordo di quel disastro e la consapevolezza che ancora troppo poco sia cambiato nel sistema della moda sono gli elementi ispiratori di Fashion Revolution, il movimento, nato proprio cinque anni fa, che coordina la Fashion Revolution Week. Fashion Revolution nasce grazie all’energia di due leader del fair trade, Orsola de Castro e Carry Somers, al fine di rinnegare la produzione della moda basata sullo sfruttamento della manodopera e sull’inquinamento. Bambini e adulti intossicati da additivi chimici e che lavorano in tempi e condizioni disumane spingono il movimento, che conta già un successo mondiale, a lanciare un grido virale: #Whomademyclothes?. Un inno al rifiuto di essere complici di tanto sfruttamento, perché non si può più far finta di non sapere chi produce gli abiti che indossiamo, quanto sono sfruttati quei lavoratori e con quante sostanze chimiche vengono a contatto per soddisfare le nostre bulimie fashion.

L’IMPORTANZA DELLA SENSIBILIZZAZIONE

Milano – città della moda, del design e del futuro, con uno spirito che oramai la colloca a una dimensione di faro per il nostro Paese – condivide il manifesto rivoluzionario: l’8 maggio, nel rooftop del Superstudio e in partnership con la Fondazione Pistoletto, la Fashion Revolution italiana ha richiamato le coscienze su un mercato fondamentale ma fortemente compromesso. Michelangelo Pistoletto e il suo Terzo Paradiso sono stati fra i protagonisti di un evento di sensibilizzazione molto concreto, basato su quattro concetti come l’educazione, l’innovazione, la moda sociale e l’informazione, espressi da realtà contemporanee ed esperienze che fanno anche fare bella figura al nostro Paese.
Start-up e modelli di scambio, giovani talenti che operano nel remake come unica strada percorribile, in un mondo troppo pieno di cose che alimentano isole di spazzatura, all’insegna della reinvenzione e di nuove politiche che regolino la produzione dall’inizio alla fine, dall’ideazione alla distribuzione. Una realtà che sembra negare l’allerta che vede i giovani lontani da questi principi fondamentali: pare che i sopravvalutati millennials non tengano conto del comportamento dei brand quando comprano, né pensino a chi e come si produce. C’è insomma una distanza che limita la condivisione fra chi si preoccupa del futuro e chi vive in una dimensione virtuale, fatta di acquisti online che sembrano step di un videogioco.

GLI ESEMPI VIRTUOSI

I buoni esempi non vengono raccontati nel modo corretto: pochi conoscono le azioni di coraggiosi indipendenti come Stella McCartney, la quale denuncia la gravità del fatto che solo l’1% dell’abbigliamento è riciclato; la sua voce è una delle più potenti nella moda, ha acquistato la quota del 50% della sua compagnia dal gigante del lusso Kering per essere l’unico proprietario e agire secondo un codice etico serissimo. Fortunatamente sta diventando un pensiero comune soprattutto in certe aziende di dimensioni controllabili; molto più difficile operare definitivamente per i grandi gruppi, anche se lasciano ben sperare – sempre per restare nel gruppo Kering ‒ le scelte di Gucci di non produrre più pellicce e le dichiarazioni di Bottega Veneta di arrivare nel giro di due decenni alla fine della produzione in pelle animale. Storie nuove come quella di Eileen Fisher che, attraverso un modello di progettazione circolare, ha ripensato il modo in cui acquistiamo, consumiamo, riutilizziamo e scartiamo i nostri vestiti. Scelte che portano a privilegiare una diminuzione dell’acquisto e una conoscenza del prodotto simile a quella che applichiamo nell’acquisto del cibo: conosciamo i rischi del fast food, stiamo imparando a conoscere quelli del fashion.

TECNOLOGIA ED ECOLOGIA

Non basta però arrivare alla consapevolezza e all’educazione di chi compra e produce. Per determinare un futuro sano non si può scegliere solo il romanticismo artigianale. La visione deve essere necessariamente accompagnata da un’adeguata competenza tecnologica e di ricerca. Così, insieme ai rivoluzionari del fashion, diventano leader i futuristi, quelli che lavorano nei laboratori, negli spazi di produzione e nelle officine a Shenzhen, Seoul, Detroit e Mumbai. Sono quelli che sanno adeguare e comprendere le nuove tecnologie per risolvere problemi e definire una nuova economia. Tecnologia ed ecologia, etica e consapevolezza sono diventati gli elementi da cui si genera il lusso contemporaneo. Che dovrà essere la moda e il modo di domani.

Clara Tosi Pamphili

Articolo pubblicato su Artribune Magazine #43

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Clara Tosi Pamphili

Clara Tosi Pamphili

Clara Tosi Pamphili si laurea in Architettura a Roma nel 1987 con Giorgio Muratore con una tesi in Storia delle Arti Industriali. Storica della moda e del costume, ha curato mostre italiane e internazionali, cataloghi e pubblicazioni. Ideatrice e curatrice…

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