La critica è morta. E ora vale tutto (perfino la mia opinione) 

Se la critica d’arte rinuncia al suo ruolo di giudizio, alla sua capacità di dire “no”, allora non è altro che storytelling specializzato e apologetico

La critica non giudica più, spiega”. In questa frase – non scritta ma chiaramente sottesa un recente articolo di Alfonso Berardinelli pubblicato sul Foglio e alcune considerazioni raccolte da Artribune sul ruolo della critica – è racchiuso l’atto di morte della critica d’arte contemporanea. Non una crisi passeggera, non una trasformazione fisiologica del linguaggio, ma una rinuncia strutturale alla funzione critica in senso proprio. 

La critica dovrebbe giudicare, non giustificare 

Da tempo sostengo che la critica, così come l’abbiamo conosciuta nel Novecento, non esiste più. Non perché manchino critici, testi, riviste o convegni, ma perché è venuto meno ciò che ne fondava l’autorità: il giudizio. L’articolo di Berardinelli e di altri importanti pesatori e critici, non fa che confermare questa diagnosi, fotografando un sistema culturale in cui la critica ha smesso di essere spazio di valutazione autonoma e si è trasformata in apologetica permanente del mondo dell’arte. Oggi il critico non esercita più una funzione distinta rispetto al sistema che lo legittima. Non guarda l’opera per metterla alla prova, ma la difende a priori; non distingue tra ciò che funziona e ciò che fallisce, ma costruisce narrazioni che servono a giustificare qualunque gesto venga immesso nel circuito istituzionale e di mercato. Il giudizio viene sostituito dall’interpretazione, e l’interpretazione – quando è infinita, autoreferenziale, sganciata dall’opera – diventa una forma sofisticata di rinuncia. Come suggerisce implicitamente Berardinelli, si è affermato un paradosso ormai strutturale: più l’opera è muta, più cresce il discorso che la circonda. Il linguaggio critico non chiarisce, non orienta, non educa lo sguardo; piuttosto avvolge, protegge, immunizza. La critica non rischia più di dire “questa opera non regge”, perché quel “non regge” incrinerebbe l’equilibrio tra istituzioni, mercato, carriere e consenso. 

Il ruolo sacerdotale della critica 

In questo slittamento la critica si è trasformata in apologetica. Non nel senso nobile del termine, ma nel suo significato degradato: difesa preventiva dell’esistente, giustificazione sistematica di ciò che è già stato consacrato. Il critico non esercita più una funzione di mediazione, ma assume un ruolo sacerdotale, traducendo l’opera in un linguaggio iniziatico che non serve a comprendere, ma a credere. Le conseguenze sono profonde. Se non esistono più criteri esplicitabili, discutibili, condivisibili, non esiste più autorità critica. E se l’autorità non deriva dall’esercizio del giudizio, ma dall’autodefinizione professionale, la gerarchia delle voci si dissolve. In questo contesto, per quanto scomodo possa sembrare, la mia opinione vale quanto quella di chi si autodefinisce critico d’arte. 
Questa affermazione viene spesso liquidata come populismo culturale. Non lo è. Il populismo nasce quando si nega la competenza; qui accade l’opposto: si prende atto che la competenza ha smesso di manifestarsi come tale. Non si afferma che “uno vale uno”, ma che uno vale quanto l’altro quando nessuno giudica più. L’equivalenza delle opinioni non nasce da una rivolta del pubblico, ma da una ritirata della critica, che ha preferito l’autoconservazione al rischio del dissenso. 

Come la critica abdica se stessa 

Se il critico non distingue, non rifiuta, non espone criteri, non si assume la responsabilità di dire “no”, allora non esercita una funzione diversa da quella di uno spettatore colto. Cambia il registro linguistico, non la sostanza del ruolo. La critica perde la propria specificità e si riduce a una forma di storytelling specializzato. I gesti provocatori, le opere estreme, le operazioni concettuali non sono il problema in sé. Il problema nasce quando la trasgressione diventa formula, il gesto si fa replicabile, e la critica rinuncia a tracciare una linea di demarcazione tra atto fondativo e manierismo. Dire che tutto è arte non è una conquista democratica: è una abdicazione critica. 
Ciò che emerge è un sistema culturalmente chiuso che si presenta come aperto, inclusivo, pluralista, ma che è in realtà impermeabile al dissenso reale. Un sistema in cui l’insensato non viene discusso, ma spiegato; non messo in crisi, ma valorizzato. Una democratura culturale, in cui il consenso è ottenuto non attraverso il confronto, ma attraverso il linguaggio. Quando la critica rinuncia al giudizio, la cultura perde una delle sue ultime difese democratiche. E quando questo accade, non è il pubblico a doversi giustificare per aver preso parola. È la critica, semmai, a dover spiegare perché pretende ancora di essere ascoltata senza avere più il coraggio di giudicare. Se la critica è diventata apologetica, la differenza tra chi guarda e chi “critica” è solo di ruolo, non di statura. Ed è forse questa, più di ogni altra, la verità che l’articolo di Berardinelli e di altri importanti autori ci costringe a guardare e, con uno sforzo di maggiore serietà, ad ammettere. 
 
Angelo Argento 

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Angelo Argento

Angelo Argento

Avvocato patrocinante in cassazione e dinanzi alle giurisdizioni superiori. Docente di Legislazione dei Beni Culturali presso l'Accademia Nazionale di Belle Arti di Brera. Presidente di Cultura Italiae, associazione riconosciuta quale ONG UNESCO.

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