Tre mostre di fotografia da vedere a Pordenone: Robert Doisneau, Seiichi Furuya e Olivia Arthur
Pordenone anticipa il 2027, che la vedrà Capitale italiana della Cultura, con tre intense e raffinate mostre di fotografia. I temi della naturalezza, della memoria, del corpo, della pelle, ma anche della fatica il filo conduttore tra loro
Quello che si presenta nelle tre mostre è un dialogo fra fotografi che potremmo definire umanisti. Un dialogo fra differenti generazioni, momenti storici e, non da ultimo, con gli spazi che li ospitano. Più essenziali e lineari gli ambienti della Galleria Bertoia e del piano terra del Museo Civico Ricchieri, che ospitano Lo sguardo che racconta, del maestro Robert Doisneau (Gentilly, 1912 – Montrouge, 1994), e i Face to Face di Seiichi Furuya (Shizuoka, 1950); estremamente connotato il primo e secondo piano sempre del Civico, dove Olivia Arthur (Londra, 1980) innesca un suggestivo confronto tra passato e presente. I temi della naturalezza, della memoria, del corpo, della pelle, ma anche della fatica, sembrano unire questi tre fotografi che, soprattutto nei due più giovani, si trasformano in un racconto autobiografico spesso doloroso. Sono fotografie che ‘si muovono’ come pagine di libri o fotogrammi, anche quando sono racchiuse da una cornice, come accade per Doisneau. Impressione amplificata, nel mio caso, dallo stato dei lavori ancora in corso durante la conferenza: gli allestitori stavano infatti affiggendo i manifesti e questa azione diveniva fortuitamente parte del dialogo con il tempo e con lo spazio della Galleria dedicata a Bertoia, quasi coetaneo del maestro, rendendo gli scatti ancora più vivi. In quel momento è stato come veder riattivate le immagini della strada, dei bambini che giocano, delle fabbriche, della guerra, che dal Novecento scivolavano nei Duemila.
La mostra di Robert Doisneau a Pordenone
“Le foto che mi interessano sono quelle che sanno resistere al tempo”, diceva non a caso, Doisneau. E il tempo delle prime foto, quelle degli Anni Trenta, in particolare I bambini con il latte e I fratelli con le loro acrobazie circensi in strada, ci raccontano da subito un tempo che oggi sentiamo proprio lontano, che richiama la nostalgia del perduto, del fare e dello stare assieme. Sono “frame” che resistono e ci riconnettono a ciò che spesso dimentichiamo. La retrospettiva procede cronologicamente e mostra come nel corso degli anni il suo sguardo, da timido, sia divenuto sempre più aperto e come già negli Anni Quaranta il suo stile fosse pienamente definito. È il periodo della guerra di cui si fa testimone Il riposo del combattente delle FFI (Forze Francesi dell’Interno) del 1944, uno scatto che sembra tratto da una scena di un film, come pure Gli agenti in bicicletta del 1945. Geometricità e naturalezza convivono come in una composizione cézanniana e scatto rubato e scatto preparato non sono così facilmente distinguibili, così come era avvenuto per quel bacio (Baiser de l’Hôtel de Ville) che tutti noi oramai conosciamo e che sembra rubato.
Questa immagine iconica — che il curatore Gabriel Bauret definisce “la Gioconda della fotografia” — apre la sezione dedicata ai capolavori degli Anni Cinquanta. Accanto compaiono il Cabaret de l’Enfer (non più esistente) e Mademoiselle Anita del 1951, il primo piano che incontriamo. Vicino ma non troppo, distaccato eppure così profondo da farne uscire il sentire. Da non dimenticare Il nastro della sposa, che con il filo teso tra le due sedie ricorda i giochi dei bambini, e La strana coppia, nella stessa sala, che potrebbe fungerle da pendant.
Si susseguono poi scene di cabaret, di festeggiamenti, di interni e dalla splendida Le petit balcon si giunge ai tanti balconi che ci offrono una panoramica della vita dell’epoca. Poco più avanti si trova infatti una “casa di bambola”, in cui Doisneau realizza un montaggio di quindici fotografie che raccontano i diversi abitanti di un palazzo dal primo all’ultimo piano.
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L’infanzia nell’opera di Doisneau
L’infanzia è sempre presente, tenerissime sono le immagini dei tre bambini all’ultimo piano, come pure quelle della signora che si prende cura dei suoi animali così in contrasto con chi fa yoga o chi, disteso a letto, osserva le Creature da sogno appese alla parete. Difficile citarle tutte, dal momento che la mostra ne racchiude un corpus davvero vasto di oltre 130 pezzi nei quali è presente anche la famosa fotografia a Picasso, un periodo che potremmo definire più geometrico, incentrato sulle architetture, fino ad arrivare alla sperimentazione con il colore. Ampia è anche la sezione dedicata alle commissioni, al reportage realizzato nel 1945 nella manifattura tessile francese di Aubusson, dove lo sguardo è incentrato sui lavoratori e dove il gesto, i movimenti delle mani, si uniscono, come un filo sottile, alla pelle investigata sia da Seiichi Furuya sia da Olivia Arthur, che ci guida alla sua mostra. Potremmo dire che entrambi — anche se in modo diverso — ci conducono in un progetto di vita, dove l’epidermide è soglia in cui si tenta di entrare per comprendere da dentro. Furuya oramai da molti anni incentra la sua ricerca sul dolore suo e della moglie, morta suicida nel 1985: un crudo faccia a faccia, in linea perfetta anche con quella che è la storia del Palazzo, dove, proprio in quell’anno è stata rinvenuta una necropoli.
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Le mostre di Furuya e Arthur a Pordenone
Ed è proprio sopra la parte trasparente, in cui si vede oltre la pelle dell’edificio, sottoterra, che è stata collocata la fotografia di Christine, emaciata ma sorridente. Se la pelle di Furuya è quella del dolore, quella di Olivia Arthur, che ci guida nelle sale, è invece quella elastica della gravidanza, quella che memorizza tutti i cambiamenti, gli urti, i contatti. Murmurings of the Skin presenta una serie di fotografie in dialogo perfetto con lo spazio e con le sue opere, siano esse pitture, sculture, affreschi. Delicate, sospese, sono tutte stampate su tessuto e pronte, pertanto, a danzare a ogni minimo nostro movimento e Olivia ci invita anche a toccarle. Mani che toccano mani, come quelle intrecciate ma geometriche dei pendolari che sembrano voler sostenere anch’esse la croce del dipinto a fianco e prendere Icaro prima della sua caduta; mani erotiche che al contempo difendono e accarezzano; mani che evocano stupore e timore davanti a una creatura appena nata. La mostra al Museo Civico è un susseguirsi di corpi perfetti e imperfetti, naturali e robotici, caldi e sudati, freddi e performativi. Ogni dettaglio in questo allestimento è perfettamente studiato e da qualunque punto ci si collochi, passato e presente, sopra e sotto, innescano un dialogo affascinante e appassionato che pare non trovare fine.
Eva Comuzzi
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