Alla Scala di Milano arriva Šostakovič con una nuova ambientazione stile Art Déco sovietico

Nel cinquantesimo anniversario della morte del compositore, e per l'inaugurazione della stagione operistica, viene presentato al pubblico il capolavoro grottesco e scandaloso “Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk” reinterpretato dal direttore Vasily Barkhatov con una scenografia post-costruttivista

Visto il clamoroso successo riscosso da Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk presso il suo primo pubblico, quello per cui era pensata, si potrebbe supporre che questo capolavoro grottesco di Dmitrij Šostakovič abbia consolidato negli anni una posizione di indiscussa preminenza nell’operistica internazionale. Ma così non è. Il motivo è facilmente deducibile dalla data di uscita e dalle location della doppia prima: 22 gennaio 1934, Leningrado e Mosca. La spietata critica sociale e l’inedito realismo nella rappresentazione della sessualità e della violenza risultano difficili da digerire all’alba delle purghe staliniane: e infatti quando, dopo due anni di successi, anche il leader dell’URSS va a teatro per assistervi, arrivano le conseguenze. Subito il compositore (neanche trentenne) cade in disgrazia e l’opera viene messa al bando. Potrà tornare in Russia solo negli Anni Sessanta, presentando una versione senza le scene di erotismo più intense e la musica più eversiva, quella con dirette ispirazioni a Musorgskij e Mahler. Ci vorrà un lungo lavoro di recupero anche nel resto del mondo per tornare alla versione originale, che solo negli Anni Novanta arriva al Teatro alla Scala di Milano e che ora vi fa ritorno nel cinquantesimo anniversario della morte del compositore.

“Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk” di Šostakovič apre la stagione della Scala

La storia de Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk , così come è stata scritta da Nikolaj Leskov e adattata a libretto dallo stesso compositore, è brutale. Protagonista è la giovane Katerina Izmajlova che incontriamo maritata a forza al possidente Zinovij, un uomo debole, anche di fronte alle molestie sessuali fatte da suo padre alla moglie. Innamoratasi del garzone Sergej, Katerina avvia con lui una relazione, che però viene scoperta in flagranza dal suocero: quando questo picchia il suo amante, lei avvelena il vecchio con una zuppa. Il primo di una serie di omicidi: anche Zinovij morirà, e il suo cadavere, nascosto in cantina, verrà scoperto proprio durante il matrimonio di Katerina e Sergej. I due vengono condannati ai lavori forzati, ma durante il viaggio Sergej si invaghisce di una ragazza più giovane: è lei l’ultima vittima di Katerina, che la trascinerà con sé in un fiume gelato ponendo fine alla storia.

Pensato come prima parte di un trittico sulla condizione della donna nel Paese, il dramma è ambientato originariamente nella campagna russa di metà Ottocento, a cavallo dell’abolizione della servitù della gleba. Ma non sarà la steppa sconfinata ad accogliere gli spettatori della Scala dal 7 settembre, giorno della Prima (anche su Rai e Rai Play) e della conseguente apertura della stagione operistica 2025/2026.

L’Art Déco sovietica in scena alla Scala di Milano

La scelta del regista Vasily Barkhatov, alla sua prima collaborazione con il direttore della Scala Riccardo Chailly, è ricaduta infatti su un’ambientazione alternativa: un ristorante di lusso in pieno stile Art Déco sovietico. Anche chiamata “post-costruttivismo”, l’Art Déco sovietica non è molto nota, anche perché ha avuto vita breve: dal 1932 al 1937. Ispirata alla versione americana dello stile internazionale – introdotta in URSS da personaggi come l’architetto Albert Kahn, il costruttore di Detroit che aveva progettato le fabbriche della Ford e che Stalin aveva chiamato a sé -, superò la trasparenza e la dinamicità del costruttivismo per far posto a nuove linee potenti e nette.

Un ideale che si riflette nell’aspetto massiccio e monolitico degli edifici del tempo: esempio cardine è l’Accademia Militare Frunze di Mosca, progettata da Lev Rudnev e Vladimir Munc nel 1932. La forma architettonica ideale diventa il cubo, un volume imponente e stabile, spiega Kristina Krasnyanskaya nel suo saggio del 2020 sull’Art Déco sovietica, che si fa simbolo di pace e soprattutto di ordine. Non mancano infine, nelle strutture più modeste e nei pezzi di design, alcuni elementi dell’Art Déco europea: dettagli curvi, combinazioni di materiali diversi, fitte componenti verticali e orizzontali, l’accostamento di superfici spoglie a piccoli elementi elaborati, e, ovviamente, la lucentezza del metallo, del vetro e del legno laccato.

La libertà sessuale nell’URSS e in scena

Un’ambientazione diversa dalla miseria rurale dell’originale, e più vicina per contesto al pubblico d’elezione di Šostakovič. Un pubblico che ritrovava nel crudo libretto (e nella selvaggia partitura) un tema molto discusso del proprio tempo: la libertà sessuale. Una delle grandi conquiste della Rivoluzione russa, che però stava venendo erosa sotto i loro occhi: con Stalin si cerca di arginare il divorzio, si mette al bando l’omosessualità e proprio nel 1934, anno di pubblicazione dell’opera, viene introdotto il divieto di aborto. Ecco che allora il riscatto della sessualità accade in scena, tra humour nero e tragedia. Ma di sesso, sul palco, ne vedremo? Il regista, classe 1983 e formatosi al Bol’šoj di Mosca, anticipa la risposta. Katerina, in veste di pedissequa narratrice, ci spiegherà tutto ciò che le è accaduto: è proprio questa cornice a permettere a Barkhatov di evitare le scene di sesso esplicito, non tanto per pudore, dice, quanto per esser certo di evitare una probabile goffaggine che avrebbe potuto intaccare la musica, la vera protagonista dell’opera.

Giulia Giaume

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Giulia Giaume

Giulia Giaume

Amante della cultura in ogni sua forma, è divoratrice di libri, spettacoli, mostre e balletti. Laureata in Lettere Moderne, con una tesi sul Furioso, e in Scienze Storiche, indirizzo di Storia Contemporanea, ha frequentato l'VIII edizione del master di giornalismo…

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