Intervista ai tre fondatori della residenza d’artista in Piemonte che porta l’arte contemporanea lontano dai suoi centri
Tatiana Palenzona e Amina Berdin, con l’imprenditore Michelangelo Buzzi, hanno deciso di puntare sulla provincia di Alessandria per rendere protagonista un luogo lontano dai centri dell’arte contemporanea. In questa intervista le loro voci raccontano cos’è MARES
S’ispira al nome dell’antica popolazione celto-ligure dei Marici, che ha abitato la zona tra le province di Pavia, Alessandria e Piacenza nel IV Secolo a.C., il progetto di residenza d’artista MARES, nato dell’incontro delle curatrici Tatiana Palenzona e Amina Berdin, insieme all’imprenditore Michelangelo Buzzi. MARES ha scelto di radicarsi nel territorio alessandrino, scommettendo su un contesto periferico dal profondo valore storico-artistico, come la sede che lo accoglie, il cinquecentesco Complesso Monumentale di Santa Croce a Bosco Marengo. Con la mostra Ruins, che segna la conclusione del primo ciclo di residenze (2025), l’associazione inaugura un percorso triennale che ha l’ambizione di costruire un nuovo polo culturale attivo, partecipato e capace di dialogare con il tessuto sociale, artistico e storico del luogo.

La mostra “Ruins” a Bosco Marengo
Il titolo stesso della mostra non è solo una riflessione sul passato o sulla fragilità delle strutture architettoniche, ma una lente attraverso cui rileggere il presente e immaginare nuove possibilità di rigenerazione, sia culturale sia sociale. In questa intervista approfondiamo i diversi aspetti che hanno dato forma a MARES: dal processo di selezione degli artisti alla curatela condivisa della mostra, fino al dialogo con la comunità locale e alla riflessione sulla sostenibilità di un progetto indipendente e non profit. Emergono così temi centrali come la cura, la presenza e l’ascolto, parole chiave che restituiscono l’approccio con cui MARES si è avvicinato non solo allo spazio fisico del Complesso, ma anche alla sua memoria, alle persone che lo abitano e al territorio che lo circonda.
Intervista alle curatrici di MARES
Qual è il ruolo di una residenza d’artista in un territorio come quello alessandrino, fuori dai circuiti più frequentati dell’arte contemporanea?
Tatiana Palenzona: Il ruolo di una residenza d’artista in un contesto come quello alessandrino si è rivelato poliedrico per MARES. Inizialmente, il nostro obiettivo era duplice: far emergere il Complesso di Santa Croce, un luogo di grande valore storico e artistico, e decentrare l’arte contemporanea dai grandi centri urbani, offrendo opportunità agli artisti emergenti. Con il primo ciclo di residenze abbiamo, però, compreso che il nostro impegno si estende ben oltre. Abbiamo visto la necessità di avvicinare l’arte di oggi ai più giovani, che spesso possiedono un’intuizione naturale, ma poche occasioni di confronto con opere e artisti contemporanei.
Quali azioni avete messo in campo per favorire questo confronto?
TP: Si è concretizzato nei laboratori realizzati con gli artisti in residenza e le scuole del territorio. Un altro aspetto fondamentale è stato quello di costruire ponti e tessere relazioni con altre realtà locali impegnate nello sviluppo culturale. Ne sono esempi la collaborazione per la proiezione gratuita del film “La Chimera” di Alice Rohrwacher con Radici Urbane e i dialoghi con Radic’Arte, associazione che promuove la danza contemporanea. Operare in questo territorio significa aggiungere un tassello cruciale a un puzzle altrimenti incompiuto, piuttosto che un ulteriore elemento in un mosaico già saturo e meno sostenibile
Avete ricevuto oltre 400 candidature da più di 40 paesi. Cosa vi ha guidato nella selezione degli artisti per questa prima edizione?
Amina Berdin: Il numero di application ricevute è stato davvero sorprendente! Non abbiamo posto limiti di media o di età. Ci siamo interrogate con onestà su cosa avremmo potuto offrire in termini di supporto: la produzione concreta di nuove opere è centrale per MARES, ma abbiamo anche considerato la costruzione di un network, l’esperienza di condivisione, la mostra finale e il catalogo. Abbiamo cercato artisti in grado di portare linguaggi e background differenti in diverse fasi del proprio percorso. Giovanni Chiamenti ha una carriera consolidata; Jade Blackstock lavora con la performance da anni nel Regno Unito e oltre. Abbiamo voluto includere un’artista internazionale per offrire uno sguardo diverso sul territorio, e un’artista locale, Teresa Prati, per reinterpretarlo dall’interno. Luca Pagin, il più giovane, ci ha colpito per la solidità della ricerca e la freschezza del linguaggio scultoreo in relazione ai temi di Ruins. Anche la dimensione personale è stata importante: oltre 40 colloqui ci hanno permesso di selezionare personalità complementari, capaci di condividere vita e lavoro per tre mesi e di confrontarsi con progetti site-specific. La scelta delle figure curatoriali ha seguito un processo altrettanto attento: quest’anno abbiamo collaborato con Lemonot, duo curatoriale tra arte, architettura e urbanistica, con una visione fluida, transdisciplinare e sensibile allo spazio urbano.
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Ci dite di più sul tema della mostra?
AB: Abbiamo deciso di lavorare sul tema Ruins perché ci sembrava un punto di partenza potente per introdurre l’arte contemporanea all’interno del complesso monumentale di Santa Croce. Ci siamo chieste: qual è la differenza tra “rovina” e “resto”? E cosa determina la conservazione dell’una rispetto al degrado dell’altro? Il complesso stesso si trova in una condizione ambigua sospesa tra ristrutturazione e abbandono. Una condizione che riflette anche il contesto circostante, segnato da una forte vocazione industriale, ma disseminato di edifici e strutture ormai dismesse.
E cosa raccontano queste tracce?
AB: Ci siamo chieste come potessimo rileggerle per offrire interpretazioni nuove, capaci di evocare tanto il passato quanto il futuro. Come scrive Magalí Arriola, “forse solo attraverso una riattivazione della memoria di un passato circostanziale si possono opporre le cronache ufficiali della storia e, così, immaginare nuove possibilità per il futuro”. Ci siamo interrogate su come generare nuovi significati a partire dai segni del tempo impressi nell’architettura e nei materiali, lasciando agli artisti ampia libertà di interpretazione: dal passato remoto evocato da Giovanni Chiamenti al lascito emotivo delle stanze riformatorio esplorato da Luca Pagin.
I linguaggi e le pratiche degli artisti sono molto diversi tra loro. Come avete lavorato per creare un equilibrio e una narrazione coerente all’interno della mostra?
AB: Lo spirito di una residenza sta nello scambio e nel confronto tra ricerche diverse. Per creare equilibrio tra pratiche così differenti, abbiamo chiesto agli artisti di presentare un progetto iniziale, che ha tracciato un filo conduttore rispetto agli assi di Ruins, pur lasciando libertà di evoluzione. In tre mesi, Jade Blackstock ha esplorato la scultura con un’opera in cotone e cera d’api lunga 13 metri; Luca Pagin ha affrontato nuove dimensioni scultoree; Giovanni Chiamenti ha prodotto tele di grande formato; Teresa Prati lavora a un’opera di sound art. L’equilibrio è nato dialogando costantemente con gli artisti e con lo spazio, permettendo alle opere di confrontarsi tra loro e con le stanze. I limiti installativi e gli spazi connotati hanno stimolato scelte consapevoli e caute, mentre mostra e catalogo restituiscono e raccontano il percorso condiviso di questi tre brevi ma intensi mesi

Il Complesso di Santa Croce ha attraversato secoli di trasformazioni: che tipo di relazione si è instaurata tra gli artisti e il territorio?
TP: Il Complesso di Santa Croce è stato il fulcro iniziale della ricerca, ma la nostra visione si è estesa fin da subito all’intero territorio alessandrino. Ruins è nato come un ampio sforzo di esplorazione locale, lasciando agli artisti la libertà di concentrarsi sugli aspetti che più li stimolavano, e siamo rimasti affascinati dalle loro interpretazioni. La relazione personale di ciascun artista con il territorio è stata plasmata sia dalla provenienza sia dalla natura della loro pratica. Per esempio, Jade Blackstock, che è principalmente una performer, ha scelto di concentrarsi sul passato industriale dell’area e sulla sua natura “curata” e votata alla produzione. Ha collaborato con apicoltori locali, creando opere con miele e cera d’api e sperimentando per la prima volta elementi scultorei oltre alla performance. Altri artisti, come Giovanni Chiamenti e Luca Pagin, hanno approfondito musei e archivi storici della provincia. Teresa Prati, unica residente originaria della zona (Novi Ligure), ha invece potuto rivalutare con occhi nuovi luoghi già familiari. Un contributo prezioso è arrivato anche da Pino Nonni e sua moglie Tina, che da oltre trent’anni vivono accanto al Complesso e si prendono cura della Chiesa, offrendo un legame autentico con la memoria viva del luogo.
Quanto è importante il dialogo con la comunità locale?
Michelangelo Buzzi: Fondamentale. Un progetto artistico che ignora il contesto in cui si inserisce rischia di rimanere sospeso, disconnesso dal luogo che lo ospita. Il Complesso Monumentale di Santa Croce, in particolare, è stato costruito per la comunità locale: nasce come punto di riferimento condiviso, un ponte simbolico tra i paesi di Frugarolo e Bosco Marengo. Oggi viene utilizzato prevalentemente come spazio per eventi occasionali o mostre temporanee, senza però una funzione continuativa o pienamente attiva nel quotidiano del territorio. Riattivarlo significa non solo valorizzarlo come contenitore, ma ricucire un legame che nel tempo si è allentato. Il dialogo con la comunità è quindi essenziale per restituire al luogo la sua funzione originaria di spazio vissuto, riconosciuto e condiviso.
La presenza dell’arte contemporanea può contribuire a un rinnovato senso di appartenenza al luogo? In che modo?
MB: Nel nostro caso sì, e credo che debba farlo. L’arte contemporanea ha la capacità di leggere i luoghi al di là delle narrazioni consuete, di sottrarli all’inerzia e di rimetterli in gioco. È abituata a lavorare in contesti marginali o sospesi, spazi che si trovano in una fase di transizione e che spesso sfuggono a una funzione riconosciuta. In questi contesti non ci si limita a occupare uno spazio, ma si propone un uso critico, aprendo nuovi immaginari e creando relazioni inaspettate. E quando questo accade, il luogo torna a essere parte attiva della vita collettiva, invece di restare sullo sfondo.
Siete un’associazione non profit: come si costruisce un progetto sostenibile?
MB: La sostenibilità per noi non è solo una questione economica, ma relazionale. Un progetto è sostenibile quando riesce a mettere in sinergia i vari attori coinvolti: istituzioni, organizzatori, artisti, pubblico. Ognuno deve avere chiaro il proprio ruolo, il contributo che porta e il valore che riceve in cambio, materiale o immateriale. Le istituzioni devono vedere nel progetto una continuità con le proprie missioni territoriali. Gli organizzatori devono trovare un equilibrio tra visione e fattibilità. Gli artisti devono sentirsi parte attiva di un ecosistema più ampio. E il pubblico deve sentirsi coinvolto e messo nella condizione di entrare in relazione con ciò che accade. Questo si costruisce nel tempo, con ascolto, coerenza e cura dei dettagli. Soprattutto per realtà giovani come la nostra, ogni alleanza conta.
Una parola chiave di MARES?
TP: “Cura”. È stato fondamentale applicarla a ogni aspetto dello sviluppo, iniziando dal Complesso stesso. La cura è stata anche il fulcro delle relazioni che abbiamo costruito con le persone che abitano questi spazi quotidianamente da anni, le quali hanno accolto la nostra presenza con grande disponibilità e apertura. MB: “Presenza”. Presenza intesa come impegno ad abitare realmente il luogo, non solo a passarci. Una residenza non può limitarsi a importare un progetto in uno spazio, ma deve costruire un rapporto, anche umano, con il territorio. Questo richiede tempo, pazienza e ascolto. AB: “Ascolto”, saper ascoltare le storie e i racconti legati al luogo, le persone che ogni giorno si prendono cura di Santa Croce e le intuizioni degli artisti ha permesso di costruire relazioni più profonde e di realizzare opere complesse in dialogo con il contesto. L’ascolto si estende anche ai consigli dei curatori che sono passati in visita in residenza, che sono stati preziosi sia in vista della mostra, sia per aiutare MARES a migliorarsi.
Caterina Angelucci
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