Trasformare il progetto di lavorare nella cultura da sogno a opportunità: una sfida per il Paese

Da anni ormai si osserva una discrepanza tra gli iscritti alle facoltà umanistiche e le persone che poi riescono effettivamente a trovare lavoro negli ambiti prescelti, una disparità da colmare al più presto per mantenere in equilibrio il nostro Sistema Paese

Ad un anno dalla laurea, nelle discipline letterario-umanistiche lavora soltanto una persona su due. Alle stesse condizioni, i laureati in informatica che hanno trovato lavoro ad un anno dalla laurea sono la quasi totalità. C’è di più: in valori assoluti, i laureati nelle discipline letterario-umanistiche sono più di quattro volte i laureati in informatica. Qualcuno allora potrebbe pensare che tale disparità sia naturale: se si guarda ai valori assoluti, allora il numero di laureati in discipline umanistiche che hanno trovato lavoro dopo la laurea supera il corrispondente numero di lavoratori del secondo gruppo.
È però palese che si tratta di una visione un po’ troppo ottimistica. Un’interpretazione più neutra porterebbe invece a concludere che, malgrado si registri un eccesso di lavoro nei settori umanistici, i ragazzi continuano a scegliere questo tipo di percorso universitario, mentre una specializzazione in informatica consentirebbe loro di accedere ad un mercato del lavoro caratterizzato da una domanda più alta.
Se la libertà di scegliere un indirizzo di studi è sacrosanta, è però vero che questi dati raccontano una dinamica che in qualche passaggio presenta necessariamente un’asimmetria informativa o una distorsione delle aspettative. 

Le ragioni per cui si sceglie un percorso di studi nelle facoltà umanistiche 

La scelta di avviare un percorso di studi in cui sarà più difficile trovare lavoro (e non stiamo nemmeno parlando di livello contributivo), può essere infatti dettata da una serie di fattori: il primo è una forte fiducia in se stessi, elemento sicuramente presente tra i giovani italiani; l’altro è un’altrettanta ampia fiducia nel sistema Paese, condizione che invece non pare essere proprio la più diffusa tra gli italiani. 
Chi decide ad esempio di voler tentare una carriera da musicista, ha ben presente che sta perseguendo un “sogno”, e che questo sogno potrà avverarsi o infrangersi. È ben consapevole che la probabilità di diventare una pop-star è veramente molto bassa, ma che nel caso in cui dovesse riuscirci, otterrebbe una posizione sociale invidiabile, in termini di riconoscimenti, di fama, e di risorse economiche. 

Lavorare nella cultura? Il sogno di chi intraprende percorsi di studi umanistici 

Chi invece decide di tentare una carriera da archeologo, ad esempio, ha ben presente che sta perseguendo un “sogno”, con la differenza che, anche nel caso in cui il sogno dovesse avverarsi, non ci sarebbe lo stesso ritorno sociale e soprattutto economico.
È sicuramente più facile diventare archeologo che pop-star, siamo d’accordo, ma è anche vero che è ancora più facile diventare informatico, guadagnare con il proprio lavoro, vedere riconosciuta la propria professionalità e la propria competenza, e poter immaginare un percorso di vita stabile. È vero che le inclinazioni personali contano, ma è anche vero che, i dati che sono stati presentati, richiedono una riflessione sistemica. 

Il rischio di formare professionisti che faticheranno a trovare un’occupazione 

Detto in altri termini, come Paese, stiamo sviluppando professionisti che, al termine del proprio percorso universitario avranno difficoltà a trovare un’occupazione. E questo significa che avremo delle persone che troveranno lavoro a condizioni economiche più basse (l’eccesso d’offerta implica questo), che troveranno lavoro in settori differenti da quelli di propria formazione, o che decideranno di sviluppare la propria professionalità in altre nazioni. 
Nel frattempo, i percorsi di studi triennali letterario umanistici sono poco più del doppio di quelli di informatica e ICT.  Il che significa, che un potenziale decremento di iscrizioni nelle materie che generano una maggiore incertezza occupazionale potrebbe risolversi anche in una riduzione del numero di studenti per corso, soprattutto se al di là delle lauree triennali si inizia a tener conto di tutte le numerosissime attività universitarie successive (lauree magistrali, master, scuole di specializzazioni, dottorati, ecc.). Un fattore da non sottovalutare, perché l’insegnamento accademico, oltre ad essere spesso popolato da figure dal profilo occupazionale poco stabile, è soltanto una delle attività legate all’accademia, e che si associa alla ricerca, e a servizi verso altri soggetti (pubblici o privati). 
Se ragioniamo in termini di Sistema Paese, quindi, è necessario adottare una visione più ampia e sviluppare una riflessione che si concentri sugli effetti aggregati potenziali di questi trend, ben sapendo che il mondo accademico, pur essendo divenuto negli anni più adattivo rispetto al passato alle logiche di “mercato”, ha comunque una struttura istituzionale e un “ciclo produttivo” che dilatano il tempo necessario per l’adozione di cambiamenti. 

Bisognerebbe creare un migliore rapporto tra domanda e offerta di lavoro anche nella cultura 

Con questa visione, la dimensione concreta di ragionamento è dunque quella di comprendere in che modo favorire un migliore rapporto tra domanda di lavoro e offerta. Non perché l’università debba necessariamente risolversi in un percorso di preparazione al lavoro, ma perché l’Università è parte di un Sistema Paese il cui ruolo è quello di favorire il pieno sviluppo dei propri cittadini. 
Questo significa che, a fronte della disparità tra domanda e offerta di lavoro, il nostro Paese può ragionare su differenti tipologie di azione: la riduzione del numero di studenti in quei corsi che hanno una minore domanda di lavoro; la previsione di percorsi formativi che siano in grado di fornire competenze ampie, così da introdurre i neolaureati all’intero di più mercati; la previsione di interventi assistenziali per coloro che restano al di fuori del mercato del lavoro; lo sviluppo di politiche volte a stimolare la domanda di lavoro in quelle aree in cui l’offerta eccede la domanda. 

L’inclusione in altri mercati: una strategia per supportare chi ambisce a lavorare nella cultura 

Semplificando: se non vogliamo che ci siano percorsi universitari che generano troppi disoccupati o occupati di ripiego, o si limita il numero di coloro che possono seguire un dato percorso di studi, o, in qualche modo, si favorisce l’inclusione in altri mercati, o si sviluppa la domanda di lavoro. Quest’ultima leva sembrerebbe probabilmente quella più coerente con l’impostazione generale del nostro Paese, soprattutto se si tiene conto che le materie a minor tasso di occupazione sono quelle stesse materie (letteratura – filosofia – archeologia – ecc.), che si prendono cura di quegli aspetti su cui l’Italia maggiormente pone l’accento nel suo branding internazionale. 

Sviluppare la domanda: una sfida per il Sistema Paese 

Chiaramente, sviluppare la domanda è una politica economica complessa, che richiederebbe interventi differenti nelle singole aree di specializzazione. In archeologia, ad esempio, una leva potrebbe essere quella di sviluppare una politica assunzionale finalizzata al monitoraggio del nostro Patrimonio Archeologico, non solo in fase di scavo, ma anche per tutto il patrimonio archeologico emerso. Un piano nazionale per l’archeologia che sicuramente implicherebbe un incremento della spesa pubblica, ma che allo stesso tempo si tradurrebbe in una maggiore stabilità occupazionale, un maggiore reddito, e quindi un maggiore livello di consumi, maggiori entrate erariali, e un minor costo in termini di interventi emergenziali. 

Le conseguenze positive di una maggiore solidità occupazionale 

Senza considerare che una maggiore solidità occupazionale si tradurrebbe, nel medio periodo, in un maggior numero di persone che decidono di avere figli. Si tratta, chiaramente, soltanto di una delle possibili azioni e quindi non è necessariamente la più efficace. È però essenziale che chi si occupa di cultura debba iniziare a considerare nelle proprie policy anche coloro che, ad oggi, sono inclusi all’interno del percorso formativo e universitario. Perché in cinque-sette anni tutte quelle persone saranno probabilmente sul mercato del lavoro, e più offerta e domanda saranno allineati, più la nostra economia sarà efficace. E se consideriamo importante coltivare la conoscenza umanistica, dobbiamo considerare altrettanto importante fare in modo che chi intraprende un percorso in questo ambito disciplinare possa anche viverci. Tutto qui.

Stefano Monti  

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Stefano Monti

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Stefano Monti, partner Monti&Taft, è attivo in Italia e all’estero nelle attività di management, advisoring, sviluppo e posizionamento strategico, creazione di business model, consulenza economica e finanziaria, analisi di impatti economici e creazione di network di investimento. Da più di…

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