Come le istituzioni culturali in Ucraina si trasformano in rifugi antiaerei. E viceversa
Dopo più di tre anni di guerra, in Ucraina arte e resistenza continuano a sovrapporsi. Un reportage tra le città di Kharkiv, Kyiv e Lviv per scoprire come gli spazi espositivi diventano luoghi di riparo dalle bombe, raccontando storie di coraggio e solidarietà
Nelle prime ore del 24 febbraio 2022, le sirene antiaeree hanno squarciato l’alba su Kyiv, Kharkiv, Odessa, Chernihiv, Sumy e altre città, annunciando il collasso della vita abituale. Le esplosioni hanno illuminato l’orizzonte; a Kharkiv e Kyiv, il boato dei bombardamenti è stato seguito dal rombo frenetico del traffico, con auto, autobus e treni che intasavano le strade verso ovest. Le ferrovie ucraine hanno sospeso le tariffe, trasformando i binari in un’ancora di salvezza, mentre stazioni e autostrade diventavano punti di congestione di un esodo civile senza precedenti. Donne, bambini e anziani si sono ammassati in vagoni già sovraffollati, viaggiando sotto l’eco degli allarmi antiaerei. Intanto i missili colpivano l’intero Paese, dalla zona di esclusione di Chernobyl all’aeroporto di Ivano-Frankivsk, ricordando che nessun luogo era completamente sicuro. Mentre il cambiamento rapido e doloroso travolgeva individui, istituzioni pubbliche e private, gli attori culturali si trovavano in prima linea nell’assistenza alla popolazione civile. La comunità artistica e culturale è stata tra le prime ad agire con sensibilità e compassione. La trasformazione degli spazi d’arte in tempo di guerra non è solo una storia di resilienza, ma anche un tragico promemoria di ciò che può andare perduto. Tra i casi più emblematici c’è quello di IZOLYATSIA a Donetsk. Fondata nel 2010 sui terreni di una fabbrica di materiali isolanti in disuso, era diventata in pochi anni una delle istituzioni di arte contemporanea più dinamiche dell’Ucraina, ospitando mostre, residenze e programmi pubblici che riunivano artisti ucraini e internazionali. Il suo ambiente post-industriale, con ampi saloni e spazi all’aperto, era un laboratorio per installazioni su larga scala e progetti sperimentali, che avevano trasformato Donetsk in un punto di riferimento della mappa culturale dell’Europa orientale. Nel giugno 2014, i locali furono sequestrati dai militanti filorussi e trasformati in prigione e luogo di tortura. Da allora IZOLYATSIA opera in esilio a Kyiv, continuando mostre, residenze e attività di diplomazia culturale, documentando al tempo stesso le perdite e sostenendo la protezione del patrimonio ucraino. Nel corso della guerra su vasta scala, la comunità culturale e artistica ucraina non solo ha resistito, ma è diventata portavoce dell’identità nazionale. Artisti, curatori e istituzioni hanno continuato a produrre opere, organizzare mostre e impegnarsi nella diplomazia culturale, assicurando la presenza delle voci ucraine sulla scena mondiale. Nei musei, nelle biennali e nei progetti indipendenti all’estero, l’arte ucraina si è imposta come finestra sulla tragedia in corso, trasmettendo resilienza e umanità al pubblico internazionale. In questa atmosfera di paura, incertezza e dislocazione, la questione della sicurezza e il concetto stesso di rifugio sono diventati realtà condivise da artisti, operatori culturali e pubblico. Sono entrati nel linguaggio delle mostre e delle performance, hanno plasmato i ritmi della vita culturale e ridefinito il ruolo dell’arte in una società sotto attacco.

Kharkiv. Arte viva nel cemento armato
Fin dai primi giorni della guerra, Kharkiv ha mantenuto un notevole impulso culturale, trovando il modo di fondere la sopravvivenza con l’espressione artistica in spazi sia sopra che sottoterra. Anche sotto i continui attacchi, che non cessano dall’inizio dell’invasione russa, Kharkiv rimane un faro di speranza, resilienza e rinascita culturale. Un esempio commovente è quello dell’artista Valentina Guk, che trasforma i frammenti di vetro frantumati dai bombardamenti in intricati mosaici capaci di riportare colore e ritmo alle pareti danneggiate. I suoi pannelli compaiono proprio nei punti di impatto, tracciando un percorso di memoria e rinnovamento. Nel suo lavoro, ogni frammento diventa un mattone per ricostruire l’integrità, trasformando i detriti in un mezzo di narrazione. Questi mosaici sono diventati emblematici della capacità di Kharkiv di riparare, ricordare e reimmaginare il suo paesaggio urbano anche in mezzo alla devastazione. Anche le istituzioni si sono adattate. Il seminterrato della Galleria Municipale di Kharkiv, noto come spazio ARTpidval, ha riaperto come luogo ibrido, fungendo contemporaneamente da rifugio e da sede per mostre, conferenze di artisti e serate letterarie. Qui, l’atto di riunirsi rimane inseparabile dall’atto di proteggersi, sostenendo le comunità creative quando le strade sopra non possono offrire sicurezza.
La resilienza di Kharkiv. Il caso dello Yermilov Centre
Lo Yermilov Centre, che prende il nome dal celebre artista d’avanguardia ucraino Vasyl Yermilov, si è affermato come punto di riferimento fondamentale per l’arte ucraina in tempo di guerra, portando la resilienza e la creatività degli artisti di Kharkiv al pubblico e fondendo le funzioni di rifugio e mostra. Situato nei piani inferiori rinforzati dell’Università Karazin, le spesse pareti in cemento, la profondità e l’architettura compartimentata del Centro consentono ai visitatori di vivere l’arte senza paura costante, garantendo sicurezza sia fisica che emotiva. Lo spazio stesso influenza il modo in cui gli artisti concepiscono il loro lavoro e il modo in cui il pubblico interagisce con esso, creando una maggiore consapevolezza del fatto che la cultura a Kharkiv persiste non nonostante la minaccia, ma al suo interno. Abbiamo intervistato la direttrice Natalia Ivanova.

Kharkiv è sempre stata l’anima tenera dell’arte contemporanea ucraina. La sua sensibilità si affianca al cemento armato della sua architettura e al costruttivismo apparentemente freddo. Ma mentre si presenta come una struttura solenne, al suo interno pulsa la vita culturale. E lo Yermilov Center è sempre stato il cuore di questo ecosistema. Allora, dimmi, cosa è successo nei primissimi giorni dopo l’invasione russa?
Il 24 febbraio ha cambiato le nostre vite. In un solo giorno, lo Yermilov Centre si è trasformato da centro d’arte contemporanea a rifugio antiaereo completamente attrezzato. Il centro è davvero un buon rifugio, si trova sottoterra, c’è un bagno e tre uscite aggiuntive. È un monumento al costruttivismo, con pareti in cemento armato e praticamente senza finestre.
La mattina del 24 febbraio abbiamo iniziato a telefonare agli artisti, e loro hanno iniziato a mettersi d’accordo e a invitare altri artisti. Nella comunità artistica tutti si conoscono molto bene, hanno chat in comune e progetti comuni. Pertanto, il nostro invito a rifugiarsi nello Yermilov Center si è rapidamente diffuso tra gli artisti e i loro familiari. Le prime ad arrivare sono state le ragazze che lavorano con noi, perché le bombe hanno iniziato a cadere proprio vicino al loro dormitorio alle cinque del mattino. Molti sono arrivati con le loro famiglie, quindi c’erano molti bambini. Non era affatto importante che fossero tutti artisti, per noi era importante fornire riparo a chi ne aveva bisogno nel miglior modo possibile. Quando abbiamo chiamato l’artista Pavlo Makov, all’inizio ha rifiutato, dicendo che avrebbero cercato di restare a casa. Ma venti minuti dopo, un missile è caduto vicino alla loro casa, senza però esplodere. È chiaro che chiunque si sarebbe sentito a disagio in quella situazione; quindi, Pavlo ha richiamato dicendo che sarebbero venuti. All’epoca non sapevamo ancora distinguere i tipi di armi che arrivavano, se volavano veloci o lenti, da lontano o da vicino.
Come siete riusciti a organizzare lo spazio per ospitare tutte queste persone? Quanti di voi hanno trovato rifugio nella galleria?
Eravamo circa cinquanta persone nella galleria, molti bambini, un grosso cane ben educato e un sacco di gatti. Per i gatti abbiamo liberato una stanza separata con degli scaffali, così potevano vivere lì. L’unica cosa che non avevamo era la doccia, ma siamo riusciti a organizzare una stanzetta per l’igiene personale. In quei giorni è diventato molto chiaro che gli artisti sanno davvero fare tutto. Hanno costruito dei posti letto con le strutture da esposizione che si erano accumulate nel nostro magazzino. Io dormivo su un grande plinto da esposizione coperto da trapunte, per esempio. Ho portato dal mio appartamento tutto ciò che poteva essere utile: cuscini, coperte, piumoni, sacchi a pelo, e gli artisti hanno rapidamente trasformato i pannelli espositivi e i tavoli in letti improvvisati. Avevamo un lungo tavolo, postazioni per conservare il cibo. Lo spazio era organizzato molto bene. Due finestre alte sono state coperte con dei pannelli. Così, quando un missile ha colpito lil palazzo dell’Amministrazione Comunale di fronte, l’onda d’urto ha distrutto cinquecento finestre dell’università, mentre le nostre sono rimaste intatte. Ma le nostre finestre sono saltate in aria più tardi, all’inizio del 2024. I pannelli hanno resistito, tutto il vetro è caduto all’esterno e nessuno è stato ferito.
Prima hai parlato di Pavlo Makov. È una delle figure principali della scena artistica contemporanea di Kharkiv (e dell’Ucraina in generale). La nuova invasione è iniziata pochi mesi prima dell’apertura della 59. Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia, dove Makov rappresentava l’Ucraina. Immagino che sia stato piuttosto difficile realizzare il progetto, vero?
Nel 2022 Pavlo Makov doveva rappresentare l’Ucraina alla Biennale di Venezia con l’opera The Fountain of Exhaustion. Acqua alta. Il gruppo curatoriale del progetto era composto da Maria Lanko, Lizaveta German e Boris Filonenko. Non era possibile trasportare tutte le attrezzature e l’opera finita a Venezia, quindi la curatrice Maria Lanko ha deciso di portare l’elemento principale, i coni di bronzo della fontana, con la propria auto. E così ha fatto. In quei giorni discutevano continuamente con Makov su cosa fare. Lui era a Kharkiv, i curatori a Kiev, era una situazione pericolosa ovunque. Makov non capiva affatto se sarebbe riuscito ad arrivare a Venezia. Ma Maria disse che avrebbe portato i coni e che, anche se avessero dovuto semplicemente disporli sul pavimento, avrebbero realizzato il progetto. Perché penso che qui non si trattasse solo di arte, ma anche dell’importanza per l’Ucraina di essere presente a questo evento, di parlare a nome dell’Ucraina, di patriottismo e di posizione cittadina.

Ma nel frattempo era con te, al riparo nella galleria? Avete parlato del suo progetto?
Mentre eravamo nel rifugio, ho chiesto a Pavlo se volesse raccontare a tutti del progetto, della Biennale. Così abbiamo dato il via a una serie di eventi nel nostro rifugio. Tutti avevano bisogno di uno stimolo intellettuale, tutti avevano bisogno di distrarsi da ciò che stava accadendo all’esterno: i colpi dei missili e dei droni, i combattimenti di strada e i mezzi pesanti sui viali della città. Quindi ci siamo seduti e abbiamo parlato di arte. Più tardi, Roman Minin ha portato da casa gli occhiali per la realtà virtuale e ha tenuto una lezione sulla creazione artistica nella realtà virtuale, così abbiamo provato tutti questi occhiali. Abbiamo organizzato serate cinematografiche e dibattiti. Vlad Yudin ha portato l’argilla dal suo laboratorio, così abbiamo fatto un corso di ceramica. È un’arte molto tattile, quindi era rilassante. Tutto per mantenere la salute mentale in qualche maniera. Più tardi, tutto ciò che abbiamo realizzato è stato esposto alla mostra, in occasione del primo anniversario dell’invasione.
Hai avuto modo di vedere com’era la situazione in città nel primo periodo dopo l’invasione?
La situazione generale a Kharkiv nei primi giorni dell’invasione era spaventosa. Tornavo a casa per assistere mio padre malato e per farlo dovevo attraversare tutta la città. In quei giorni nelle strade c’erano combattimenti, entravano carri armati e blindati russi. Il cielo rimbombava: c’erano aerei che svolazzavano. È un’esperienza terrificante, non importa quanti carri armati ci siano per strada, cento o tre, è comunque una realtà tremenda. Una realtà in cui ti senti completamente indifeso. Ora ripenso a tutti quei viaggi e capisco quanto fosse pericoloso, ma non avevo scelta. Nel frattempo, gli artisti sentivano il bisogno di rendersi utili non solo nei rifugi. Cercavano contatti con organizzazioni di volontariato e diventavano loro stessi volontari. Il volontariato è complesso, richiede conoscenze e competenze, anche perché dove trovare tutto ciò che serve ai soldati in prima linea?
So che poco prima dell’invasione avete inaugurato la mostra Enfant Terrible di Oleh Kalashnyk. L’idea alla base della mostra era straordinariamente in sintonia con gli eventi. Intendo dire che analizzava l’ossessione infantile per l’industria militare e la propaganda sovietica della guerra attraverso i giocattoli per bambini. Quando è nata questa idea?
Oleh mi aveva proposto questa idea già nel 2021, e anche prima. Ha detto che sarebbe stato interessante approfondire il tema dell’infanzia e dei suoi attributi, in particolare questi soldatini di metallo con cui tutti giocavano. Kalashnyk ha creato una serie di oggetti, ha fuso questi soldatini con materiali e dimensioni diverse – alcuni erano grandi sculture in cemento – e ha dipinto diversi quadri con loro. Ha attinto a tutti i tipi di guerrieri, dagli antichi vichinghi alle futuristiche truppe spaziali. Ma soprattutto, sottolineava che i soldatini erano un giocattolo popolare tra i bambini, molto presente nelle vetrine dell’Unione Sovietica, per esempio. Si trattava, in sostanza, di un giocattolo propagandistico, che imponeva ai bambini il culto della guerra, normalizzandola e mostrando il soldato come un amico da seguire in battaglia.

Oltre a tutto ciò, nella mostra era presente un mappamondo, sulla cui superficie erano disposti questi soldatini, come un esercito che aveva conquistato l’intero pianeta, o che intendeva farlo e non si vergognava di dirlo. Il mappamondo era appeso contro una parete bianca e la sua ombra ricordava la forma caratteristica di una mina sottomarina con punte. Tutto questo si inseriva molto bene nello spazio costruttivista della galleria con pareti di cemento. C’era anche un’installazione con una sabbiera (naturalmente, nella varietà dei giochi per bambini non poteva mancare). Oleh ha fuso dei soldatini di cera che stavano su questa sabbia. Devo dire che non ho capito fino in fondo questa installazione, ma nel rifugio, circondata dai bambini, è diventata una salvezza.
Quindi hai finito per vivere nel bel mezzo della mostra di Oleh Kalashnyk quando la galleria è diventata un rifugio?
In effetti, la mostra ha vissuto tre vite. Il giorno dopo l’inaugurazione è iniziata l’invasione, il centro si è trasformato in un rifugio antiaereo e molti oggetti hanno dovuto essere rimossi. Alcuni di essi hanno vissuto con noi le prime settimane terribili, ci hanno confortato e hanno creato uno spazio per conversare, riflettere e giocare. Kharkiv è ancora sotto tiro, ma noi lavoriamo come al solito, continuiamo le mostre e resistiamo.
Kyiv underground. Dove l’arte resiste alla guerra
Nel 2023, Kyiv ha affermato la sua resilienza culturale attraverso un progetto emblematico: la mostra How Are You? presso la Casa Ucraina. Il team curatoriale comprendeva Yehor Antsyhin, Olha Balashova, Halyna Hleba, Yuliia Karpets, Anna-Mariia Kucherenko, Katia Libkind, Tetiana Lysun e Oleksandr Soloviov. Il progetto si è svolto nell’ambito del programma Post-War Memory Culture in Ukraine, realizzato dall’ONG MOCA in collaborazione con la piattaforma culturale Memory Past / Future / Art, con il sostegno della Svizzera. Distribuita su cinque piani e con opere di quasi cento artisti provenienti da tutta l’Ucraina, la mostra si è articolata in una cronologia libera, ripercorrendo le mutevoli esperienze emotive e sociali a partire dall’inizio della nuova invasione russa. Il titolo, una semplice domanda quotidiana, è diventato un silenzioso emblema di solidarietà, compassione e resistenza. Qui, dipinti, fotografie, installazioni e materiali documentari si sono intrecciati per formare un autoritratto collettivo di un paese sotto assedio. Piuttosto che offrire una registrazione statica degli eventi, la mostra ha intessuto una narrazione vivente, in cui l’arte è diventata uno strumento di presenza e continuità. Sotto le strade della città, la vita culturale si è riconfigurata per rispondere sia alle esigenze di sicurezza sia al bisogno di condivisione. Le stazioni della metropolitana hanno offerto rifugio agli abitanti di Kyiv sin dall’inizio dell’invasione e, di conseguenza, sono divenute spesso palcoscenico di iniziative culturali. Nelle settimane successive al 24 febbraio 2022, il Centro Dovzhenko, il più importante archivio cinematografico dell’Ucraina, ha ampliato il proprio ruolo oltre la conservazione, collaborando con il dipartimento culturale della città per organizzare proiezioni nelle stazioni. Questi cinema sotterranei, illuminati solo dal bagliore del proiettore, hanno offerto rari momenti di quiete e riflessione. Il ronzio costante dei treni e gli annunci della stazione sono entrati a far parte della colonna sonora, legando i film alla trama della vita in tempo di guerra. Nel Centro stesso, la programmazione adattata ha continuato a garantire che il patrimonio cinematografico di Kyiv rimanesse una risorsa pubblica attiva.
Voloshyn Gallery. Allestire mostre sottoterra
A Kyiv, la Voloshyn Gallery è emersa come uno dei principali canali di diffusione dell’arte ucraina in tempo di guerra sulla scena internazionale, collegando la realtà vissuta dal Paese con un pubblico globale attraverso mostre e fiere che trasmettono l’urgenza e l’intimità della creazione sotto assedio. Situata nello spazio sotterraneo di un edificio nel centro di Kyiv, è divenuta sia un rifugio sicuro sia un luogo dedicato all’arte contemporanea. Tra i suoi progetti di maggiore risonanza vi è stato Anxiety (Tryvoha), curato dall’artista Nikita Kadan. Vivendo nello spazio sotterraneo della galleria per oltre due mesi, Kadan ha allestito opere di artisti ucraini del XX Secolo che avevano creato all’ombra di precedenti traumi nazionali — rivoluzioni, carestie, purghe politiche — accanto a lavori di voci contemporanee. La realtà spaziale della mostra era inseparabile dal suo significato: i visitatori incontravano l’arte all’interno di un’architettura di protezione, dove la vicinanza di materassi e scorte di emergenza accentuava la meditazione delle opere sulla resistenza, la fragilità e la ciclicità delle crisi nella storia ucraina. Ne parliamo con i fondatori della galleria, Iulia e Maksym Voloshyn.
Negli ultimi anni, la vostra galleria ha svolto un ruolo fondamentale nell’informare il mondo dell’arte sulla guerra in Ucraina, sia dalla sede di Kyiv che da quella di Miami. E lo avete fatto con compassione ed eleganza, attraverso progetti espositivi e fiere d’arte. Il vostro spazio espositivo di Kyiv si è trovato al centro dell’azione quando è iniziata l’invasione. So che il tuo quartiere è stato bombardato più volte. Ma prima di diventare un rifugio per artisti e vicini, quali erano i vostri progetti per la galleria?
Iulia Voloshyn: Il 24 febbraio 2022 avremmo dovuto inaugurare la mostra di Oleksii Sai Rozbombleni (Bombardati), dove le opere sono state costellate da piccoli crateri e buchi, simili ai segni di proiettili o frammenti di bombe. In quel momento eravamo ancora a Miami, ma dovevamo tornare a Kiev per l’apertura. Avevamo programmato l’inaugurazione per il 24 febbraio, ma l’artista ha chiesto di posticiparla perché non si sentiva bene. Quindi l’inaugurazione era fissata per il 25 febbraio e l’allestimento per il 24 febbraio. I quadri erano stati disposti nella galleria, ma l’allestitore non si è più presentato, ovviamente.
Maksym Voloshyn: Allo stesso tempo, meno di dieci giorni prima dell’inizio dell’invasione, abbiamo inaugurato la mostra pop-up Memory of her face a Miami. Abbiamo sollevato il tema della guerra in Ucraina che andava avanti dal 2014, dell’occupazione del Donbas e della Crimea. Volevamo fare una piccola inaugurazione intima per gli amici e poi partire per Kyiv. Nei primi giorni dopo l’invasione, le persone hanno iniziato ad arrivare e si sono stupite che avessimo raccolto così rapidamente il materiale per la mostra: non sapevano o non ricordavano da quanto tempo fosse in realtà in corso la guerra. È stata la prima e unica mostra sulla guerra in Ucraina negli Stati Uniti. Non siamo più riusciti a rientrare a Kyiv in quel periodo.
Cosa è successo dopo quella mattina, quando ci siamo svegliati tutti con le sirene antiaeree e i missili che solcavano il cielo sopra l’Ucraina?
IV: È scoppiato il panico, abbiamo detto ai nostri artisti di venire alla galleria perché lì era caldo. Sono arrivati Sai con la sua famiglia, Lesya Khomenko e anche i vicini del palazzo in cui ci troviamo. Nel condominio c’è un rifugio ufficiale, ma in realtà è solo un seminterrato umido. Quindi abbiamo invitato tutti a rifugiarsi nella galleria, che era più accogliente.
MV: Le persone dormivano accanto ai quadri di Sai della serie Bombardati, è impressionante e spaventoso allo stesso tempo.
IV: In generale, è stato tutto molto spaventoso. Non abbiamo dormito per diversi giorni, provando fisicamente questo orroree questo stress. In realtà non credevamo che l’invasione sarebbe davvero iniziata, pensavamo fossero solo minacce a vuoto. Cosa fare adesso? La galleria è chiusa, la città è sotto attacco.
E Nikita Kadan? So che è stato uno di quelli che hanno trovato rifugio nella vostra galleria. Molti dei suoi ultimi lavori derivano da questa esperienza, dal nascondersi sottoterra, dalle bombe che esplodevano proprio davanti alla galleria. Potreste anche dirmi qualcosa su Anxiety (Allarme), mostra che ha curato mentre viveva nella galleria?
IV: Nikita si è trasferito nella galleria e ha iniziato a viverci insieme ad altre persone. All’inizio, le opere d’arte conservate nel deposito della galleria sono state messe in pila per non danneggiarle. Poi Nikita ha iniziato a disporle intorno alla stanza perché gli sembrava vuota.
MV: Proprio in quel periodo, Sai si recò nella parte occidentale del Paese e Lesya Khomenko portò il bambino a Vienna. Quindi nella galleria rimasero i nostri manager e Nikita. Lui rimase lì a lungo, fino a maggio circa. Usciva solo per mangiare e fare la doccia. In quel periodo realizzò la mostra Anxiety. Dopo un po’ di tempo, i vicini sono partiti per l’estero e ci hanno lasciato le chiavi dell’appartamento, così potevamo preparare da mangiare. Tra maggio e ottobre Kyiv non è stata quasi mai bombardata. Così abbiamo deciso di riaprire la galleria. Ma proprio in quel momento un razzo è caduto nel parco Shevchenko, nel giardino dei bambini proprio davanti al nostro edificio.
IV: Abbiamo deciso di riaprire in primavera. L’inverno è stato difficile, perché c’erano interruzioni di corrente e di Internet. La galleria era aperta, continuavamo a svolgere le attività amministrative, utilizzandola come ufficio, ma non organizzavamo mostre. Dopo l’attacco al parco, Nikita, colpito dall’evento, ha iniziato a disegnare le sue “Voragini”, le opere dalla serie Depression. Riportano sempre la terra squartata dalle bombe, i paesaggi feriti. Per lui era qualcosa di molto personale, perché sua figlia ha giocato in quel parco da quando era nata.
MV: Nel 2024 ha creato un’installazione che ricorda le strutture dei parchi giochi sovietici a cui siamo abituati. Ma tutte hanno componenti pericolosi, come le baionette ed elementi taglienti. Dopo i bombardamenti di Kyiv, Nikita è convinto che nessun luogo sia sicuro, nemmeno un parco giochi.
Quando finalmente avete riaperto la galleria, qual è stato il vostro primo progetto? Cosa era importante sottolineare in quel momento?
MV: Il progetto dal titolo Camera oscura. Abbiamo riunito artisti ucraini in un dialogo con artisti provenienti da Croazia, Bosnia-Erzegovina e Kosovo. Tutti loro sono accomunati dall’esperienza umana della guerra e dalla riflessione sulle guerre contemporanee.
IV: C’era l’opera di Yevgen Samborsky Never again and again, due tele nere con graffiti bianchi. Sai come spesso si vedeva per strada questo never again, che si riferiva ai crimini della Seconda guerra mondiale? Ecco, Samborsky ha cercato di rispondere a questo motto, aggiornandolo con un avviso che tutto sta succedendo di nuovo.
MV: Molto interessante anche il lavoro di Mila Panic: Marmellata di fragole. Ha raccolto con le sue mani le fragole da un campo sminato a Brčko, in Bosnia-Erzegovina, e ne ha fatto una marmellata. È molto simile all’esperienza ucraina della coltivazione di grano nei campi sminati, una sorta di incarnazione della gravità delle conseguenze della guerra in un oggetto d’arte.
Infatti, paesi come la Croazia e la Bosnia sono quelli che hanno vissuto una delle guerre contemporanee più sanguinose e possono comprendere molto dell’esperienza ucraina. È interessante esaminare la loro pratica artistica ora, trent’anni dopo la fine della guerra. D’altra parte, abbiamo anche l’opportunità di osservare l’arte e la cultura di una guerra totale in tempo reale. Gli artisti ucraini lavorano sotto i bombardamenti e voi, come galleria, trasmettete la loro esperienza al mondo come un canale di informazione, ma a un livello più profondo, che non parla solo di numeri e luoghi geografici, ma di ogni vittima della guerra, umana e non umana.
IV: Gli artisti parlano molto delle vittime non umane, di come soffrono il paesaggio, gli ecosistemi, gli animali. Kadan, nella serie con i crateri, parla di come la terra sia avvelenata dal metallo incandescente della guerra. E noi lo esponiamo nelle mostre e nelle fiere.
MV: Quest’anno abbiamo già partecipato a sei fiere, da Frieze NY ad Arcomadrid, e spesso ci dicono che siamo gli unici a ricordare che nel mondo c’è una guerra, nel bel mezzo di una fiera, di questa celebrazione della vita con champagne e feste. Penso che per le persone sia più facile percepire le informazioni attraverso l’arte che attraverso le notizie. Quando vengono al nostro stand e Nikita racconta loro dell’Ucraina, della guerra e dell’arte, tutti ascoltano con attenzione e interesse, fanno domande. E spero che trasmettano queste informazioni ad altri, che le diffondano. Allora la nostra missione trova il suo senso: informare, creare uno spazio per la ricerca, il dialogo e l’empatia.
Lviv e la cultura come riparo
Nei primi giorni della guerra, Lviv è diventata un rifugio per coloro che fuggivano dalla devastazione dell’Ucraina orientale e meridionale. Oltre a offrire protezione, le istituzioni culturali della città si sono trasformate in spazi di solidarietà ed espressione creativa.
Il Lviv Art Center, fondato nel 2020, si è rapidamente adattato alla crisi. Inizialmente utilizzato come luogo di accoglienza per gli sfollati, ha poi avviato il progetto espositivo Shelter. Questa iniziativa ha invitato artisti ucraini a curare mostre all’interno degli spazi più sicuri del centro, come scantinati e stanze rinforzate. Le esposizioni, che includevano opere di artisti come Vlada Ralko e Kinder Album, hanno usato il concetto di protezione per trasmettere messaggi di resilienza e riflessione. Le dichiarazioni degli artisti hanno sottolineato il ruolo cruciale dell’arte in tempi di guerra, con Ralko che ha osservato: “La pittura è l’unico linguaggio che mi è tornato in mente dai primi giorni della nuova invasione”. Parallelamente, il programma Lviv Welcomes ha mobilitato le organizzazioni culturali locali per sostenere i rifugiati attraverso workshop, spettacoli e incontri di comunità. Questa iniziativa ha posto l’accento tanto sull’integrazione sociale quanto su quella creativa, combinando l’aiuto pratico con esperienze artistiche condivise. L’Associazione dei Galleristi, in collaborazione con il Consiglio Comunale, ha organizzato visite guidate della città, concerti, lezioni e ingressi gratuiti ai musei per offrire momenti di bellezza, riflessione e solidarietà nei giorni più difficili.

Ya Gallery, da rifugio antiaereo a spazio espositivo e viceversa
Attiva tra Kyiv e Lviv, Ya Gallery è diventata uno dei centri dell’arte contemporanea ucraina trasformando il suo rifugio sotterraneo in un luogo in cui l’immediatezza del conflitto e la persistenza della pratica creativa convergono per il pubblico locale e internazionale. La sua architettura sotterranea non solo offre sicurezza, ma accoglie anche mostre, creando una sovrapposizione tra rifugio e attività culturale. Artisti e curatori che lavorano in questo spazio affrontano costantemente la tensione tra urgenza e riflessione. Ce lo racconta il gallerista e fondatore Pavlo Gudimov.

Ya Gallery ha due sedi, una a Kyiv e una a Lviv. Due città con scene artistiche molto diverse, ma soprattutto con un diverso grado di esperienza della guerra in corso. Mentre Kyiv è sotto costante attacco da parte di missili e droni, Lviv è più lontana dal confine russo e quindi le armi non la raggiungono con la stessa frequenza. Ciononostante, entrambi i vostri centri d’arte hanno offerto rifugi antiaerei. Può dirmi qualcosa di più al riguardo?
Il centro artistico Ya Gallery di Kyiv si trova nel seminterrato di un edificio risalente all’inizio del XX secolo, dove lo spessore delle pareti raggiunge un metro. Questi edifici sono stati costruiti con il mattone giallo, un materiale estremamente resistente che può essere tagliato solo con una speciale mola diamantata. L’edificio ha diverse finestre piccole che si affacciano su fossati e cortili interni, più o meno protetti dall’onda d’urto. C’è un bagno e una cucina, uno spazio completamente attrezzato per lunghi soggiorni.
Come e quando è accessibile il rifugio? Ospita ancora persone?
Fin dalle prime ore dell’invasione abbiamo iniziato a funzionare come rifugio. I vicini hanno iniziato a portare materassi e coperte per poter stare comodi, riposare o dormire durante la notte. Nessuno sapeva ancora cosa sarebbe successo, quindi tutti scendevano nel rifugio, che era sicuramente più sicuro. Abbiamo gestito il rifugio per i primi mesi, finché i vicini hanno smesso di venire, ma con la nuova ondata di attacchi notturni a Kyiv nel 2025 hanno ripreso a venire da noi. Sulla porta della galleria ci sono informazioni e contatti, le chiavi sono dai vicini che sono persone di fiducia, il locale è sempre disponibile come rifugio. Dopo alcuni mesi dopo l’inizio dell’invasione abbiamo ripreso le mostre regolari e continuiamo a lavorare sistematicamente fino ad oggi.
E il centro artistico di Lviv? Dev’essere tutta un’altra storia.
Ya Gallery a Lviv ha altre specificità e una storia diversa. Anche Lviv è nel mirino dei missili e dei droni russi, quindi da questo punto di vista non esiste una città veramente sicura in Ucraina. Ma fin dall’inizio Lviv ha subito meno attacchi rispetto alle città al confine con la Russia, quindi qui hanno trovato rifugio persone provenienti da Odessa, Kyiv, Kharkiv, Dnipro, Zaporizhzhia, Kherson e altre città. Si è posto il problema di dove sistemare intere famiglie, come aiutarle.
Lo spazio della galleria sotterranea a Lviv è molto particolare ed è difficile immaginarlo come spazio espositivo, ma tu hai fatto un ottimo lavoro.
Lo spazio di Lviv ha un bellissimo seminterrato con pareti in mattoni, quelli che noi chiamiamo mattoni rossi austriaci. Sono un buon gestore, quindi è stato deciso rapidamente di trasformare questo spazio in una sala espositiva, per non lasciarlo inutilizzato e dimenticato. È diventato uno studio di scultura, dove esponiamo opere plastiche della nostra collezione o oggetti presi in prestito da altre collezioni. Oltre all’arte in sé, lo spazio stesso è un interessante esempio di architettura di Lviv dell’inizio del XX Secolo in stile Secessione, che merita particolare attenzione. Così, nel seminterrato abbiamo costruito degli scaffali, li abbiamo dipinti e li abbiamo adattati per l’esposizione delle sculture. Ma questo è avvenuto solo otto mesi dopo l’inizio dell’invasione russa.
Quindi, prima di diventare una mostra di sculture, ospitava i cittadini durante i bombardamenti?
Prima di diventare uno studio di scultura, questo locale era un rifugio antiaereo. È piccolo, quindi non poteva ospitare molte persone: i bambini potevano dormire su brandine e gli adulti riposarsi su sedie vicino alla stufa. L’invasione è iniziata a febbraio, quando i seminterrati sono freddi e umidi. Ma noi avevamo la luce e i termosifoni. Qui venivano anche i vicini del palazzo, ma per lo più erano amici e colleghi della comunità culturale e artistica che erano riusciti a raggiungere rapidamente Lviv. Tutti scendevano nel rifugio in modo molto organizzato, letteralmente pochi secondi dopo l’inizio dell’allarme, tutto era ben organizzato.
E per quanto tempo ha funzionato come rifugio? So che in quel periodo Ya Gallery ha partecipato a diverse iniziative culturali in città e che hai lavorato molto con persone provenienti da altre località.
La Galleria è diventata una sorta di centro culturale dove sono nate nuove idee per i programmi che erano necessari all’inizio della guerra. Dopo due settimane dall’inizio dell’invasione, la maggior parte delle persone ha trovato un alloggio, e il rifugio e lo spazio al secondo piano sono tornati alla loro funzione espositiva. A quel punto abbiamo continuato la nostra attività riformandola. Il numero di persone a Lviv era aumentato notevolmente, erano arrivate qui per sfuggire ai bombardamenti intensi, lasciandosi alle spalle le loro case. Quindi, come prima cosa, abbiamo elaborato un programma culturale gratuito chiamato “Lviv incontra”, in collaborazione con il Consiglio Comunale e l’Associazione Ucraina dei Galleristi. Si trattava di escursioni nei parchi, in città e nei musei, concerti, conferenze e mostre. Per noi era importante creare uno spazio accogliente e sicuro, distrarre i nuovi arrivati dai loro problemi e dallo stress costante, stare insieme e superare insieme questo periodo terribile.
E gli artisti? È ormai evidente che la loro attività non si è mai realmente interrotta; hanno continuato a lavorare, guerra o meno. Hai mantenuto i contatti con loro durante quel periodo? Cosa hai scoperto?
Sì, l’arte non è rimasta ferma. Abbiamo iniziato a raccogliere materiale dagli artisti che hanno lavorato ai loro progetti dall’inizio dell’invasione. Ovviamente, la guerra ha avuto un impatto molto forte sulla loro pratica. Certo, avremmo potuto aspettare e guardare tutto questo con il distacco di cinque o dieci anni, ma mi interessava di più la reazione immediata di artisti, designer e architetti. Questo materiale è stato alla base della mostra Le muse non tacciono, che abbiamo inaugurato nel giugno 2022 nella Porokhova Vezha (La Polveriera), il Centro di architettura, design e urbanistica. La cultura e l’arte in tempo di guerra si sono rivelate estremamente feconde, e questa ricerca era semplicemente necessaria. Inizialmente Le muse non tacciono era una serie di interviste con artisti sul nostro canale YouTube, ma da lì si è trasformato in una mostra, inaugurata a Lviv e ricostruita a Copenaghen l’anno successivo nella Casa Ucraina.
Valeria Radkevych
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