Gli artisti sanno creare comunità? Breve storia dall’arte pubblica all’estetica relazionale
Il linguaggio dell’arte contemporanea è spesso troppo lontano dalle abitudini percettive del pubblico, soprattutto se comparato alle comunicazioni di impatto immediato a cui ci ha abituato la pubblicità
Era il 1977 quando venne inaugurata la prima edizione di Skulptur Projekte a Münster, la manifestazione di Public Art (quando ancora questa espressione non esisteva) che in parte si contrapponeva alla vicina quinquennale Documenta di Kassel. Il punto era mettere in discussione un modello di mostra che, per quanto nata con l’obiettivo di aiutare la rinascita della cittadina tedesca, si incentrava su modalità espositive di tipo museale all’interno di un contesto chiuso quale la sede del Fridericianum.
La storia di Documenta e Skulptur Projekte
Nelle sue prime edizioni, Documenta toccava la cittadina dell’Assia in cui aveva (ed ha) luogo solo in modo marginale. A Münster, il fondatore-curatore Kasper König chiese agli artisti di intervenire in città attraverso opere all’aperto, capaci di fare interagire i cittadini e, piano piano, di trasformare il luogo. Dietro c’era lo sviluppo della Land Art dai tardi Anni Sessanta e i finanziamenti americani per opere all’aperto dati dagli Anni Settanta dal Public Art Fund e Creative Time, a loro volta ispirati al sostegno dato a opere pubbliche, soprattutto murales, iniziato negli Anni Trenta con il New Deal. In termini ideologici, la base dell’arte pensata per coinvolgere tutti stava nei tentativi di fuggire il mondo asfittico delle gallerie, dove le opere non potevano trasformarsi in operazioni ambientali con una ricaduta sociale.

L’esperienza di Skulptur Projekte e l’arte pubblica
Il successo di Skulptur Projekte fu enorme soprattutto nell’edizione del 1987, quando il confronto diretto con Documenta, allestita in contemporanea e incentrata su una scultura oggettuale di sapore neopop commerciale, convinse molti che l’arte nello spazio pubblico fosse una scelta politica e poetica da perseguire come alleata della pianificazione urbana e della convivenza civile. Da allora in poi emersero esperimenti di Public Art un po’ dovunque. In Italia, tra i tanti esempi, ricordiamo la manifestazione annuale Arte all’Arte a San Gimignano e dintorni (1996-2005), così come le operazioni di Gibellina e Fiumara d’arte in Sicilia. Molte e grandi – ma lontanissime dallo spirito del monumento celebrativo – anche le grandi realizzazioni a Londra, tra cui la celebre The House di Rachel Whiteread (1993), il programma del Quarto Plinto a Trafalgar Square e la serie di Padiglioni temporanei alla Serpentine Gallery.
I limiti dell’arte pubblica
Nel tempo, la stessa idea di Public Art come mezzi di coinvolgimento ha però visto i suoi limiti: il colonnato di Daniel Buren nel cortile del Palais Royal a Parigi (1985) ha suscitato enormi malumori, per esempio; il caso di fallimento più plateale del rapporto con il contesto umano fu quello del Tilted Arc di Richard Serra a Manhattan: commissionato nel 1981 dall’amministrazione, fu smantellato nel 1989 in seguito a un’insistente azione giudiziaria di chi abitava o lavorava nei suoi pressi. In altri casi le opere di Public Art sono state concepite in realtà anche per muoversi e non in modo completamente site specific e context-specific: un nodo che abbassa molto la loro propensione ad attivare processi partecipativi, come ha asserito Miwon Kwon nel noto saggio, poi divenuto un libro, One place after another (1988/2002, tradotto in italiano per i tipi di Postmediabooks).
L’estetica relazionale
Il fatto è che il linguaggio dell’arte contemporanea è spesso troppo lontano dalle abitudini percettive del pubblico, soprattutto se comparato alle comunicazioni di impatto immediato a cui ci ha abituato la pubblicità. Persino le semplicissime sfere di Claes Oldenburg, sparse in un parco di Münster, sono state sistematicamente spostate e riempite di graffiti.
La cosiddetta estetica relazionale emersa negli Anni Novanta si fece carico anche di queste contraddizioni, generandone peraltro delle altre: di fronte a Rirkrit Tiravanija che offre cibo nella sezione Aperto della Biennale di Venezia (1993) o nel piazzale antistante alla fiera Art Basel (2015), non si può che rilevare un discorso tutto interno al sistema dell’arte. Lo stesso Tiravanija, insieme a Kamin Lertchaiprasert, ha cercato di correggere la mira creando nel 1998 la comunità The Land vicino a Chiang Mai, in Tailandia: un luogo di riscoperta della coltivazione tradizionale del riso, apertamente contro le multinazionali delle sementi quali Monsanto; il viavai degli ospiti vi congiunge, nelle intenzioni, intellettuali e manodopera locale: artisti come Tobias Rehberger, Philips Parreno, Superflex e anche architetti sono stati chiamati a costruire palafitte e piccoli rifugi nella totale libertà progettuale.
Aperto e la Biennale di Venezia
Ma è rimasto di fatto un progetto elitario, come lo era stato il suo progenitore creato in Texas da Donald Judd dal 1973: oggi quell’area, totalmente gentrificata, ospita un negozio-opera di Prada ed è persino su Tripadvisor. Di fatto non è mai riuscita a cucire una comunità coesa.
Dal 2000, comunque, alcuni artisti hanno praticato un simile approccio collettivo, che prevede non “l’opera” ma uno stile di vita. Andrea Zittel ci ha provato nel deserto californiano allestendo un villaggio di casette minimali, grandi quanti un letto matrimoniale e basate sulla riscoperta dell’essenziale, nei pressi del casolare dove si è trasferita (Regen Project, Los Angeles). Lucy e Jorge Orta hanno concepito Le Moulin, un’area comunitaria vicino a Parigi dove si può essere ospitati, collaborare nel lavoro artistico o aiutare a coltivare orti e campi. Il collettivo Ruangrupa ha dato vita in Indonesia (e trasportato a Kassel nel 2022) un rapporto arte-agricoltura basato sull’idea di condivisione delle eccedenze. Quanto alla vita nelle città, il programma più riuscito è probabilmente il Dorchester House and Art Collaborative concepito da Theaster Gates a Chicago: 32 unità abitative a basso prezzo ottenute restaurando abitazioni abbandonate, in un quartiere rivisitato con servizi specifici dove i neri possono ritrovarsi, ballare, assistere a spettacoli di danza e teatro; il progetto fa il paio con quello denominato Stony Island, dove una ex banca è diventata un cinema e una biblioteca dove la comunità black può conoscere e discutere la propria storia.
Da Ruangrupa a Theaster Gates: arte e partecipazioni
Azioni di coinvolgimento comunitario sono nate anche fuori dal cosiddetto Occidente e sono tra le più interessanti: Tabita Rezaire, per esempio, ha impostato vicino alla foresta amazzonica, nella Guyana Francese, la comunità AMAKABA con intenti che vanno dal rapporto arte/scienza a un rinnovato equilibrio mente/corpo di fronte alle sfide dell’eco disastro e dell’intelligenza artificiale. Un piccolo assaggio dei luoghi di meditazione e discussione che l’artista va proponendo è ora in mostra presso la Fondation Vuitton di Parigi: finanziata da TBA21, l’opera è molto adatta al collezionismo e qui apriamo una parentesi: gli artisti che lavorano sull’utopia raramente dimenticano i vantaggi delle vendite in galleria. Ammettiamo però che siano in buona fede e che lo facciano per finanziare il loro sogno comunitario.
Non dovremmo dimenticare, a questo punto, che dietro a molte operatività di singoli artisti si cela l’organizzazione di centinaia di persone che diventano un’unità operativa: El Anatsui crea con decine di aiutanti della sua comunità nigeriana arazzi fatti di tappi di metallo, legni, stracci che assumono senso proprio dal vasto gruppo di persone che gli si è stretta intorno come a un guaritore sciamano. In Brasile, Rivane Neuenschwander ha organizzato cortei attivisti preparando costumi, cartelli dipinti e decorazioni; ma le parate non avrebbero senso se non creassero un senso di appartenenza tra le centinaia di partecipanti, che si accalcano in un gioioso corpo a corpo dando una forma visibile, si direbbe, alla “alleanza dei corpi” teorizzata da Judith Butler nel saggio omonimo (Feltrinelli 2017).
L’esperienza della High Line a New York
Il desiderio di fare comunità attraverso l’arte contemporanea è oramai così vasto da essere stato adottato anche dalle amministrazioni e persino da grandi fiere: il lavoro curatoriale che Cecilia Alemani sta svolgendo sulla Highline di New York per conto della città è una passeggiata tra le opere lungo una strada chiusa, rivista dagli architetti Diller-Renfro-Scofidio dal disegnatore di giardini Piet Oudolf; inoltre, la curatrice ha portato opere a cielo aperto nel tentativo di aiutare la convivenza anche a Buenos Aires per conto della fiera Art Basel. In generale, le attività collaterali dei musei più avanzati, in opposizione alla “distinzione” cercata dai collezionisti privati secondo Pierre Bourdieu (Il Mulino 1979) cercano di aiutare la socialità. Ma ci riescono?
A volte. Spesso le migliori intenzioni vestono i panni, però, di attività ricreative che non intaccano i problemi più urgenti. Per questo il modello di Theaster Gates è convincente, e per questo voglio ricordare un ultimo esempio che riguarda una realtà al confine tra arte e impresa. Il designer francese Emmanuel Babled ha avviato una produzione di sedie e altri mobili tradizionali in Tanzania, coinvolgendo centinaia di persone e concependo l’attività per evitare che i grandi alberghi di lusso debbano rivolgersi a Cina e Indonesia per comperare i loro arredi. Indurre le persone a stare insieme è fantastico, ma se a questo si aggiunge una piccola dose di utopia produttiva anticapitalista e decoloniale, se si riesce a creare lavoro in aree depresse, se si accolgono manifatture tipiche del luogo, se nessuno si sente sfruttato e anzi può guadagnarci… quasi quasi il design funziona meglio dell’arte.
Angela Vettese
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