Cosa significa essere un artista clandestino? Risponde l’artista salvadoregno José Campos
In occasione della collettiva da lui curata alla galleria Kates-Ferri Projects di New York, abbiamo intervistato l’artista salvadoregno José Campos (aka Studio Lenca) per parlare delle difficoltà della condizione di clandestino

“I codici visivi sono ricalibrati per reclamare l’autonomia rispetto a storie fratturate. Le allusioni materiali destabilizzano le nozioni convenzionali sul significato di essere ‘salvadoregno’. Questi inventos raccontano storie quando la lingua vacilla, le popolazioni sono disperse a livello globale o gli archivi sono scomparsi. Ci aiutano a elaborare una memoria che resiste alla semplificazione”, scrive Oliver Herbert nel testo che accompagna la mostra collettiva In The Light That Remains, curata da Studio Lenca alla galleria Kates-Ferri Projects in Grand Street 561 a Lower East Side, New York.
La storia di Studio Lenca
“Mi chiamo José Campos ma nella mia pratica artistica ho adottato il nome di Studio Lenca”, spiega l’artista/curatore, “Sono nato La Paz, El Salvador nel 1986 durante la guerra civile, con mia madre ho dovuto lasciare il paese attraversando illegalmente il confine con gli Stati Uniti. In California ero una persona senza documenti, ora vivo a Londra. Questa storia che porto con me ha fatto sì che mettessi in risalto i salvadoregni e le loro narrazioni, motivo di questa mostra a New York in un momento in cui c’è molta pressione nel paese per via del presidente Nayib Bukele, con la sparizione di tantissimi cittadini e le mega prigioni. Anche mio cugino è in una di quelle prigioni. Ma c’è molta pressione anche negli Stati Uniti a causa dell’amministrazione Trump. Una grande pesantezza e oscurità circonda la gente di El Salvador”. Il fatto stesso di affidare il racconto di se stessi, in una visione corale che ricorre a linguaggi, tecniche e materiali differenti – dall’arte tessile alla fotografia, dalla pittura all’installazione, dall’assemblaggio alla scultura – ad altri nove artisti e artiste che vivono a El Salvador e della diaspora (Jose Cabezas, Herbert De Paz, Elmi Mata, John Rivas, Antonio Romero, Edwin Soriano, Marta Torres, Lissania Vatra, Simon Vega) è un modo per intercettare un momento del presente attraverso gli strati che si alternano di luce e ombra, memoria e oblio. “È la prima volta che curo una mostra, ma ho studiato anche danza e ho lavorato come coreografo”, continua Jose Campos. “Curare una mostra collettiva è interessante perché parla dello stare vicini nella diversità”.










Intervista a José Campos (Studio Lenca)
Nella mostra In The Light That Remains sono presenti opere più esplicite e altre più simboliche…
È molto importante l’idea dei diversi livelli di lettura perché l’immagine di El Salvador è stata appiattita, perciò queste storie personali offrono una prospettiva diversa su cosa significhi essere salvadoregno. Negli ultimi due anni sono tornato a El Salvador per incontrare alcuni degli artisti della mostra, altri invece vivono negli Stati Uniti, a Berlino, Rio de Janeiro e Londra. Anche questo è un altro aspetto interessante perché si riferisce a persone dislocate non solo negli Stati Uniti, ma in tutto il mondo.





Anche tu dal 2007 sei cittadino britannico. Il tuo studio è a Margate nel programma di Tracey Emin TKW Studios…
Mi sono trasferito nel Regno Unito per amore, ma è stata anche un’opportunità per lasciare gli Stati Uniti. In questo Paese quando sei clandestino e latino sei incasellato in una categoria. In Inghilterra, invece, le persone non sanno da dove provengo, posso essere me stesso.
In mostra è esposto il dipinto Flores (2025) che appartiene alla tua serie Los Historiantes in cui t’ispiri alle danze folkloristiche di El Salvador con i costumi coloratissimi, frutto dell’ibridazione culturale delle tradizioni dei conquistadores mescolate alle credenze delle popolazioni indigene precolombiane…
Mi chiamo Studio Lenca proprio perché i Lenca erano una popolazione indigena mesoamericana del Salvador orientale. Come nelle fotografie di José Cabezas della serie History Dancer anche io m’ispiro alla tradizione, ai costumi meravigliosi, ai bellissimi fiori. Il colore per me è espressione di gioia.
Hai anche parlato di “archivio dei traumi”…
Vedo la mia pratica come una forma di cura, ma anche come qualcosa di gioioso che fa parte di un’arte che non è bloccata nel passato. È altrettanto importante dare visibilità a persone come me, emigrati clandestini, queer, appartenenti alla working class. Anche Elmi Mata è un artista che ha attraversato clandestinamente il confine con gli Stati Uniti a cui stata diagnosticata schizofrenia. Lui nei suoi quadri dipinge gli spiriti che vede.
Quali sono i tuoi ricordi dell’esperienza di aver attraversato clandestinamente il confine con gli Stati Uniti?
Avevo 4 anni. Ho ricordi di quell’esperienza molto traumatica tramite mia madre che era giovane e sola. In realtà non ne parliamo molto perché è molto doloroso, però ho collezionato dipinti di persone che hanno attraversato il confine clandestinamente. La mia pratica guarda a quest’esperienza come punto di partenza e allo stesso tempo come forma di cura, prendendo le distanze dal trauma.
Cosa ti ha portato a decidere di studiare arte alla San Francisco School of the Arts (oggi The Ruth Asawa San Francisco School of the Arts)?
Sono cresciuto a San Francisco in un ambiente cattolico molto rigido e come giovane gay avevo bisogno di fuggire, l’arte mi ha permesso di farlo.
Fino al 16 luglio 2025 // New York
In The Light That Remains
Kates-Ferri Projects
Manuela De Leonardis
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