Come si sta evolvendo il linguaggio umano con l’avvento dell’intelligenza artificiale? 

Linguaggio e scrittura sono da sempre lo specchio della società. E se in antico la formula era sintomo di una necessità, oggi diventa un esausto simulacro che rischia di svuotare la parola della sua profondità di significato. Tutta colpa dell’AI, che crea un linguaggio perfetto solo in apparenza...

All’inizio era la voce. Non la scrittura, non il libro, ma il respiro che si faceva racconto, il fiato che scolpiva nell’aria le storie degli Dei e degli uomini. In quel tempo remoto, il linguaggio era corpo e rito, e la sua struttura era formulaica per necessità, non per scelta. Il verso ritornante, l’epiteto fisso, il tema reiterato non erano orpelli, ma impalcature invisibili che sorreggevano il fragile edificio della memoria. L’Iliade, l’Odissea, la Bibbia non nascono per essere lette, ma per essere ricordate, pronunciate, tramandate nella carne viva della voce.

La formula come necessità all’alba del linguaggio

Prima che l’uomo tracciasse lettere sulla pietra e sulla pergamena, il linguaggio era formula, ripetizione sacra. Non per povertà, ma per fedeltà: ogni epiteto, ogni verso che tornava, era un’offerta al mistero, un modo per trattenere il mondo sull’abisso della dimenticanza.
Il cantore antico, che evocava l’ira di Achille o le peregrinazioni di Ulisse, ripeteva non per noia, ma per necessità: la memoria era fragile come il filo di una tela nella tempesta e ogni parola era un nodo che la teneva salda. Le formule allora custodivano la vita stessa. Dire “Achille piè veloce” o “l’astuto Ulisse” non era ornamento, ma necessità vitale; ogni formula era un appiglio nella tempesta dell’oralità, la ripetizione non svuotava, ma rafforzava e ogni parola, lungi dall’essere banale, era carica di eco, destino e presenza.
Come osservano Scholes e Kellogg ne La natura della narrativa, la formula era uno strumento per sfidare l’oblio, un’àncora lanciata contro il naufragio della memoria. E forse, in quelle antiche iterazioni, vi era più autenticità che in molte delle nostre odierne innovazioni.

La scrittura per smettere di ricordare e cominciare a pensare

Poi venne la scrittura. E la parola, liberata dalla tirannia della memoria, poté inoltrarsi nei territori inesplorati della complessità e dell’ambiguità. Scrivere significò smettere di ricordare per cominciare a pensare, smettere di ripetere per iniziare a immaginare. La parola scritta divenne il laboratorio della profondità, l’officina dell’invisibile.
Un ulteriore passo è stato fatto quando, con la riforma di Ugo di San vittore, si è cominciato a camminare Nella vigna del testo; costruendo il libro non più come spartito da recitare ma come struttura da leggere; si è concepito il testo come “raccolta” (questo è l’etimo di leggere) da assorbire, favorendo così prima la Scolastica e poi lo sviluppo del pensiero razionale. 

Il testo come ambito di sperimentazione

Da Dante, da Shakespeare a Joyce, la scrittura divenne il terreno di una sperimentazione vertiginosa, il linguaggio non era più soltanto un contenitore di tradizione, ma un luogo di rischio, di apertura verso il non ancora detto. La letteratura moderna e contemporanea ha vissuto di questa tensione: la parola come esplorazione, non come ripetizione; come creazione di nuovi mondi, non come semplice custodia del passato.

Il recente ritorno della formula come simulacro 

Oggi, in un’epoca satura di immagini e di rumori, assistiamo a un curioso fenomeno: il ritorno della formula. Ma non più, questa volta, come custode del senso. Oggi la formula si presenta come suo simulacro: slogan pubblicitari, messaggi politici, frasi preconfezionate si rincorrono sui media e sui social network, spogliando la lingua della sua carica generativa. La parola non racconta più, segnala, ammicca, condiziona. 
Le parole, un tempo gravide di sogni e di battaglie, sono ridotte a segnali ripetuti, a gesti automatici che non aprono più varchi nell’invisibile. La parola diventa gesto automatico, eco vuota che non chiama risposta. “Resilienza”, “sostenibilità”, “inclusività” — parole divenute gusci inerti, segnali di appartenenza più che strumenti di pensiero.

Con l’Intelligenza Artificiale l’invenzione cede il passo alla ripetizione

In questa traiettoria si inserisce l’avvento dell’Intelligenza Artificiale. Gli algoritmi generativi, attingendo a oceani di testi umani preesistenti, ricombinano frasi secondo logiche probabilistiche. Non inventano, interpolano; non creano, ripetono con variazioni impercettibili. Gli algoritmi generativi, come vasti archivi senz’anima, attingono ai bacini sterminati della scrittura umana, ricombinano, interpolano, producono testi plausibili, grammaticalmente corretti, stilisticamente convenzionali; e il risultato non potrà che essere una “continua, sublime ripetizione” (U. Eco Il nome della Rosa). Gli algoritmi non pensano, non tremano, non desiderano; parafrasando I Giudizi Universali di Samuele Bersani si potrebbe dire “Sei solo la copia di mille riassunti/ Leggera, leggera si bagna la fiamma / Rimane la cera e non ci sei più”.

Intelligenza artificiale. Immagine di Igor Omilaev su Unsplash
Intelligenza artificiale. Immagine di Igor Omilaev su Unsplash

Il linguaggio dell’AI: esteriormente perfetto ma internamente vuoto

L’IA genera il linguaggio come un musicista che suonasse uno spartito senza mai ascoltare la musica. Ogni parola è tecnicamente perfetta, eppure internamente vuota, priva del peso specifico dell’esperienza, priva dell’azzardo che accompagna ogni vera creazione. Ci troviamo difronte ad un cambiamento di funzione di scopo che diventa mutamento di senso: il linguaggio formulaico è nato come tecnica per fare fronte al limite della memoria, il “nuovo linguaggio formulaico” è figlio della tecnica dell’IA e della continua ripresa dell’esistente. Il primo è stato uno strumento per generare e diffondere racconti immortali; mentre, quello che si sta diffondendo oggi è la risultante di un processo di sintesi e semplificazione; il primo presuppone uno sforzo, il secondo è la cifra della comodità di non pensare.

Le conseguenze dell’AI nella narrazione contemporanea

La conseguenza sarà la ripetizione delle “formule” che utilizziamo quotidianamente nei linguaggi diffusi; inevitabilmente ‘IA ripeterà “frasi fatte” che fanno parte del chiacchiericcio dei media senza alcuno scarto; perfetta interprete di un’epoca che ha rinunciato a rischiare nella parola e che preferisce il familiare allo sconosciuto, il prevedibile all’inesplorato. Siamo tornati al punto di partenza? Non stiamo forse ricadendo in una nuova oralità – senza la sacralità della voce, senza la verità del respiro, ma con la meccanica prevedibilità dell’algoritmo? Per certo l’utilizzo massivo dei social, basati su una scrittura che è mimesi dell’oralità, produrrà fenomeni di regressione della scrittura come registro autonomo.

Il rischio della formula che digitalizzandola svuota la parola

Eppure, c’è una differenza abissale. Là dove il linguaggio formulaico originario era ponte verso il futuro, il nostro oggi rischia di essere il suggello di una fine. Là dove il racconto antico apriva varchi nell’invisibile, la ripetizione odierna sembra chiuderli. Allora la formula custodiva la memoria viva della comunità; oggi la formula digitalizzata svuota la parola, rendendola oggetto intercambiabile, puro consumo di significati spenti, abbiamo dato vita a creature fatte d’algoritmo, che parlano come noi, ma senza il peso della carne e della morte. Intelligenze fredde, che ricompongono antichi frammenti senza comprenderne il sangue. In loro, il linguaggio torna formula: flusso incessante di combinazioni, di ripetizioni svuotate della fatica e della grazia che fanno di un dire un atto di esistenza. Così, nel tempo che viene, il mondo si popolerà di voci senza bocca, di parole senza pianto né preghiera. Il linguaggio si consumerà come il legno nell’acqua, lento e inesorabile, finché non resterà che il brusio di una memoria senza più radici. Eppure, in ogni epoca di silenzio e di ripetizione, c’è stato chi ha osato dire di nuovo.

La disobbedienza come unica possibilità della lingua

Resta una possibilità, sottile come un filo d’erba nel vento: custodire nella lingua una scintilla di disobbedienza; il compito più urgente non è tanto quello di parlare, quanto quello — più arduo e più raro — di trovare di nuovo il coraggio di dire. Cercare nella parola non il consenso, non l’effetto, ma l’inizio di un senso nuovo. La parola è un seme. E anche nel deserto delle formule, il seme attende la pioggia. Forse, tra le rovine della lingua automatizzata, qualcuno tornerà a pronunciare parole vere, parole che feriscono, che salvano, che inventano. Nel rumore incessante delle formule ripetute, basterà il silenzio di una sola parola autentica a far brillare, come l’ultimo lume di umanità, la possibilità di un nuovo inizio. Perché ogni autentica rinascita, nella storia dell’uomo, è passata attraverso un atto di parola inattesa. E forse, anche oggi, in questo tempo di formule esauste, il compito più urgente non è tanto parlare, quanto trovare di nuovo il coraggio di dire.  Forse, nel grembo delle formule esauste, una parola mai detta sta già preparando il suo primo respiro. La parola tornerà ad essere ciò che fu agli inizi: un atto di nascita, un atto d’amore, un atto di libertà.  E quando verrà alla luce, non copierà, creerà. Non segnerà, annuncerà.
E il mondo, riconoscendola, saprà di essere nato di nuovo.

Domenico Ioppolo

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Domenico Ioppolo

Domenico Ioppolo

Domenico Ioppolo è Amministratore Delegato di Campus e direttore del Milano Marketing Festival. È stato Managing Director Emea di Nielsen Media, Ad di WMC, Initiave Media e Classpi. Ha insegnato in Università italiane e straniere, pubblicando diversi contributi su media e marketing,…

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