L’abisso del sacro. Un confronto tra Thierry De Cordier e Mark Rothko
La mostra di Thierry De Cordier da Fondazione Prada a Milano rende evidente quanto il pittore belga riesca a veicolare il mistero sulla tela. Un mistero analogo e speculare a quello del grande Mark Rothko

Nella cisterna della Fondazione Prada, luogo che è già architettura del vuoto e della sospensione, Thierry De Cordier (Oudenaarde, 1954)ha allestito NADA: una mostra che è più di un’esposizione pittorica. È un altare, un campo di lutto, una camera di risonanza per il silenzio e il mistero. Le sue tele nere, spesse, vibranti di un monocromo non uniforme ma stratificato, risuonano come preghiere mute. In questo spazio che sembra una cattedrale spogliata, le opere diventano icone dell’assenza, epifanie dell’indicibile, reliquie di un sacro che si è ritirato nel buio.
Thierry De Cordier e Mark Rothko: affini oltre la forma
Il confronto con Mark Rothko appare immediato per l’accostamento visivo — l’uso del colore monocromatico, l’impaginazione centrale, la monumentalità meditativa. Ma è soprattutto una parentela spirituale, una comunanza di tensione metafisica. Rothko, pittore ebreo, visse la propria ricerca come un rovello teologico: interrogò Dio come Giobbe, con un grido muto che si alzava dai suoi rettangoli cromatici come da un altare profanato. De Cordier, da parte sua, si confronta con il Cristianesimo barocco, con Rubens e Velázquez, ma porta questa eredità verso un’estetica dell’annichilimento, verso lo scandalo della Croce. Anche lui interroga Dio, ma lo fa dalla parte di Cristo, dal luogo del sacrificio e dell’abbandono.
De Cordier e Rothko, pittori del mistero
In entrambi i casi, siamo davanti a domande radicali, che si collocano oltre la teologia e oltre l’arte, nel cuore stesso del mistero umano. Sono domande che non chiedono risposte, ma che esistono per essere abitate, per diventare — parafrasando Søren Kierkegaard nel suo Esercizio del cristianesimo — cibo, vestimento e balsamo per la povera anima. Non si tratta di cercare conforto, ma di sostare nell’inquietudine. Le opere di Rothko e De Cordier non spiegano il divino, non illustrano alcun dogma: piuttosto, lo invocano nella sua assenza, nella sua scandalosa irriducibilità.
Nelle tele di Rothko, soprattutto quelle della Rothko Chapel di Houston, il colore non è mai puro ma vibrante di una presenza che si ritira. Quei viola profondi, quei marroni bruciati, quei neri inquieti, non parlano di nulla di definito: sono lo spazio stesso in cui l’anima viene messa alla prova. Ogni quadro è un Giobbe in forma cromatica. Ogni superficie, un altare dell’assenza. Eppure, nonostante la gravità, c’è in Rothko una forma di fede tragica, un’apertura all’infinito: una teologia senza Dio, ma non senza sacro.
Con De Cordier siamo forse ancora più a ridosso dell’abisso. La parola NADA, che dà il titolo alla mostra, non è solo un riferimento al nichilismo: è anche un termine mistico. Richiama san Giovanni della Croce, per il quale il “niente” era la soglia attraverso cui si passa per unirsi a Dio. “Per giungere al tutto, bisogna passare per il niente”, scriveva il mistico spagnolo. Questo “niente” non è il vuoto della disperazione, ma la notte dello spirito, il luogo in cui tutte le immagini, tutti i concetti, tutte le rappresentazioni si infrangono. È il luogo dell’amore puro e senza forma, del sacro senza figura. De Cordier sembra pitturare da lì: da questo buio fecondo in cui il divino si cela come assenza bruciante.

La tradizione barocca nei dipinti di Thierry De Cordier
Il parallelo con la pittura barocca non è puramente tecnico: si tratta piuttosto di una continuità emotiva e spirituale. Come nei corpi straziati di Rubens o negli sguardi trafitti di Velázquez, anche nei neri di De Cordier si manifesta lo scandalo del dolore e della redenzione. Ma se il barocco cercava ancora la mediazione simbolica — la teatralità del pathos, l’ornamento come via al divino — De Cordier rinuncia a tutto questo. Il suo sacro è spoglio, radicale, quasi ascetico. È l’arte come kenosis, svuotamento, una crocifissione del linguaggio stesso della pittura. In questo senso, NADA è un evento teologico tanto quanto estetico. È una meditazione sul mistero del male, sulla fragilità del senso, sull’impossibilità della redenzione attraverso l’arte — e tuttavia sulla necessità di tentarla. Non a caso, l’esposizione avviene nella cisterna: uno spazio ipogeo, silenzioso, simile a un sepolcro. È il luogo in cui si depone il corpo di Dio, per scoprire che non risponde. Ma anche il luogo in cui la domanda persiste, in cui l’uomo si fa domanda. Una domanda che, come quella di Giobbe e di Cristo, resta senza risposta, ma non per questo è vana.
Rothko e De Cordier: differenti ma speculari
Se Rothko dipinge l’attesa, De Cordier sembra dipingere l’abbandono. Se Rothko affida al colore una liturgia della speranza mutilata, De Cordier affida al nero un requiem per il senso. Eppure, proprio in questa disperazione condivisa, in questo silenzio gridato, entrambi aprono un varco. Non verso un Dio che risponde, ma verso una forma di sacro che accade nel gesto stesso della domanda. Un sacro che non consola, ma chiama. In tempi di spettacolarizzazione dell’arte, NADA è un gesto raro: un esercizio spirituale che richiede silenzio, attenzione, vulnerabilità. Così come Rothko auspicava che le sue opere fossero vissute in silenzio, in solitudine, come un’esperienza religiosa, così De Cordier invita a una visione raccolta, quasi monastica. Non si esce da NADA con una tesi, ma con un tremore. Un senso di vuoto pieno, di domanda che abita e inquieta. In fondo, questo è ciò che unisce Giobbe, Cristo, Rothko e De Cordier: non una dottrina, ma un’esperienza. Non una risposta, ma una fedeltà alla domanda. In questo, l’arte torna ad avere una funzione antica e profonda: quella di custodire l’enigma, di custodire l’abisso.
Domenico Ioppolo
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