La Fondazione Querini Stampalia di Venezia riapre e promette meraviglie. Intervista alla nuova direttrice

Porta il suo approccio “out of joint” anche in questo nuovo incarico la direttrice Cristiana Collu. La “sua” Fondazione Querini Stampalia apre le porte rinnovata e trasformata, ma sempre ancora in via di definizione. Il colloquio

Visione. Tensione. Divenire. Sono alcune parole che la direttrice Cristiana Collu ha scelto per raccontarci il nuovo corso della Fondazione Querini Stampalia di Venezia. Il 5 maggio il palazzo in Campo Santa Maria Formosa ha riaperto le sue porte per presentare le nuove mostre, ma anche un rinnovato assetto interno ed esterno: dai monumentali leoni di bronzo di Davide Rivalta che abitano il campo a un nuovo bookshop curato dalla casa editrice Tlon, fino all’intervento di Martí Guixé, che crea una seduta sociale a forma di Q davanti alle porte della Fondazione. Oltre a tanti provvedimenti relativi all’esperienza di visita, all’arredamento, all’apertura verso la comunità veneziana. Quello che molti chiamerebbero “restyling”, Cristiana Collu lo definisce “mutazione”. Un processo di continua ridefinizione che risponde alla natura viva, plurale, anfibia della Fondazione Querini Stampalia. Abbiamo chiesto alla direttrice di raccontarcelo. 

Martí Guixé, Q Spot. Seat, read, think, repeat. Photo Adriano Mura. Courtesy Fondazione Querini Stampalia
Martí Guixé, Q Spot. Seat, read, think, repeat. Photo Adriano Mura. Courtesy Fondazione Querini Stampalia

Intervista a Cristiana Collu 

Dopo la direzione del MAN di Nuoro, del MART di Rovereto e della GNAM di Roma, che sapore pensi che avrà questo nuovo incarico? 
Dopo il gusto arcaico ma sorgivo di Nuoro, quello sobrio e mitteleuropeo di Rovereto e quello sacro e profano, sontuoso, opulento, contraddittorio e stratificato di Roma, questo nuovo incarico, da astemia, lo definirei come un vino: colore velato cangiante, bouquet complesso, salmastro, note legnose, di alghe e roccia. Ingresso morbido e setoso, attraversato da salinità persistente, struttura sottile ma profonda, sfumature iodate, sentori di brezza marina, finale lungo, avvolgente e ritmico. Non disseta, incanta. A Venezia tutto scorre ma sembra che nulla si disperda, la memoria non è solo un ricordo, è sempre davanti ai tuoi occhi, affiora costante sopra e sotto il livello delle maree. La Fondazione è una specie di “disparate”, un luogo quasi eretico, eterodosso, non convenzionale. Una creatura anfibia. E io non sono qui solo per dirigerla e gestirla, ma per spostare l’asse, il linguaggio, la postura; per continuare una tradizione, come il gondoliere che, con un solo remo, inclina il corpo, fende l’acqua, disegna traiettorie oblique per avanzare diritto, con un gesto antico, sfida la corrente e reinventa l’equilibrio. 

A Roma in particolare hai dato esempio di un approccio “scardinato” alla museologia. Troveremo la tua firma “out of joint” anche alla Fondazione Querini Stampalia? 
Forse essere “out of joint” è una modalità, magari anche uno stile o una firma, ma il fatto è che a me non interessa decorare le strutture, riempirle, ma svuotarle per fare spazio, disarticolarle, lussarle per consentire la fuoriuscita, letteralmente, di un nuovo potenziale, di risorse sopite, nascoste, segrete e inaspettate che possono tornare ad abitarle e animarle. Alla Querini il gesto è stato e sarà diverso da quello della Galleria Nazionale, ma non meno radicale. È un luogo che è già magicamente disarticolato e che richiede una torsione per salpare, lieve eppure definitiva, in movimento e in piena luce, quella abbagliante del giorno, piena di riflessi e gibigiane, e quella fioca, misteriosa e sospesa della notte a Venezia.  

Davide Rivalta, Leoni in campo. Photo Adriano Mura, courtesy Fondazione Querini Stampalia
Davide Rivalta, Leoni in campo. Photo Adriano Mura, courtesy Fondazione Querini Stampalia

Cosa porti con te dal suo ultimo incarico, oltre ai leoni di Davide Rivalta, che ora invadono Campo Santa Maria Formosa? 
Porto con me il mio sguardo sulle cose, le sensazioni che gli spazi mi restituiscono, le intuizioni su ciò che ancora può accadere. Porto con me la mia idea di un tempo “out of joint”: denso, non lineare, capace di generare nuove letture e accostamenti inattesi. E porto anche l’opportunità di “make it right”: di agire, di assumersi la responsabilità del fare. I leoni di Davide Rivalta non sono souvenir: con la loro presenza fuori scala, mettono in discussione la scena. Incarnano un’idea di arte che non si accontenta di decorare lo spazio pubblico, ma lo abita, lo attraversa, lo incrina. Porto con me anche una certa tenacia e ostinazione: quella di credere che le istituzioni culturali non debbano inseguire il presente, ma contribuire a costruirlo. Che la tradizione e l’eredità siano vive e vadano maneggiate con attenzione, non imbalsamate in una teca. Infine, porto con me un’idea di cura spontanea e sentimentale, una rete di relazioni, costruita con rigore e precisione, senza che questo implichi rigidità. Il lavoro di Martí Guixé dà forma concreta a questa visione: rende visibile un metodo, una postura, una presenza che trasforma lo spazio in relazione.

Veniamo al sodo: come è stata trasformata la Fondazione Querini Stampalia? E come continuerà a trasformarsi? 
La Querini non è stata “trasformata”. È in trasformazione. Sempre. Nessun restyling ma mutazione, un cambiamento che è una torsione del senso prima ancora che dello spazio, che però è origine e conseguenza, come le idee che hanno generato le architetture che la compongono. È un organismo vigile, un animale selvatico, non addomesticabile come una leonessa del Serengeti. Abbiamo acceso dei wonder booster, innescato dispositivi, cambiato il ritmo, ora ci sentiamo più in sintonia con le maree, movimenti ciclici di rinnovamento continuo di un habitat fragile ma straordinariamente tenace. Abbiamo ripristinato il battito lungo del luogo e alzato la soglia dell’attenzione. Il futuro non è un piano, è una tensione. La Fondazione continuerà a trasformarsi ogni volta che riuscirà a fare domande nuove a se stessa, al suo pubblico, alla città. Sarà un wonder refill: un luogo che ricarica l’immaginazione, che produce senso invece di amministrarlo. Proviamo a essere visionari come il nostro Fondatore, e la visione non è (solo) un talento, è una responsabilità. 

Una nuova Querini Stampalia, non solo dentro ma anche fuori: quanto è importante aprirsi alla comunità? 
Aprirsi alla comunità è un gesto generoso, è un’azione consapevole e strutturale. Non si tratta solo di “includere”, ma di riscrivere i confini del dentro e del fuori. Come insegna Tim Ingold, non abitiamo uno spazio, ma un campo di relazioni. La Querini non è un contenitore che si apre: è un nodo in una rete di possibilità. Aprirsi significa diventare permeabili. Lasciare che l’istituzione venga attraversata, trasformata, persino contraddetta da chi la abita perché ci lavora e da chi la abita temporaneamente perché la visita e spende con noi parte del proprio tempo. In una città come Venezia, dove ogni cosa rischia di diventare una cartolina, un selfie, una immagine digitale dentro i dispositivi mobili, la sfida è essere presenza simbolica. Non monumento, ma membrana. La Fondazione è chiamata a essere un luogo che non solo accoglie, ma ascolta; che non solo mostra, ma trasmette e traduce, che non solo educa, ma impara. Ma è anche vero, come scrive Édouard Glissant, che il pensiero dell’opacità è un diritto. E noi lo rivendichiamo, come connaturato nel colore inconfondibile della laguna: perché aprirsi alla comunità non è solo spiegarsi, ma entrare in relazione anche dove non tutto è visibile, non tutto è traducibile, distinguibile perché è proprio lì che nasce il possibile. 

John Baldessari. No Stone Unturned – Conceptual Photography. Un progetto di Cristiana Collu. Con la collaborazione di Estate of John Baldessari, John Baldessarri Family Foundation e Sprüth Magers. Photo Adriano Mura. Courtesy Fondazione Querini Stampalia
John Baldessari. No Stone Unturned – Conceptual Photography. Un progetto di Cristiana Collu. Con la collaborazione di Estate of John Baldessari, John Baldessari Family Foundation e Sprüth Magers. Photo Adriano Mura. Courtesy Fondazione Querini Stampalia

Il nuovo corso della Fondazione Querini Stampalia sembra partire col botto: una mostra di John Baldessari e una dedicata all’ottimo lavoro che lo studio d’architettura romano Schiattarella Associati ha fatto per il Diriyah Art Futures, museo appena inaugurato in Arabia Saudita. Puoi dirci di più? 
Ma le mostre non sono solo due. Sono almeno cinque, forse sono addirittura di più, se mettiamo anche quella di cui ognuno di noi fa il montaggio. Ci sono Rivalta e i suoi leoni che sovvertono la scena urbana, c’è Martí Guixé che decostruisce il linguaggio espositivo mentre accoglie e invita, c’è la Querini stessa che è già, in sé, una mostra espansa e stratificata: la casa museo, la biblioteca, gli spazi di Scarpa, Botta, Pastor, De Lucchi. La Fondazione è un palinsesto che si rilegge continuamente, un dispositivo narrativo a più livelli che scardina con l’inatteso. In questo momento abbiamo una vera fioritura in piena primavera. Una costellazione di azioni, una dichiarazione di metodo dove anche le geografie sono un punto nodale: Italia, Spagna, Arabia Saudita, Svizzera, Stati Uniti, Venezia, Roma, Diriyah, Torino, Bologna, Barcellona, Berlino. Una mappa densamente intrecciata, dove saperi, forme e origini si incontrano e si ibridano.  

In che modo? 
La Fondazione non si limita ad accogliere questi flussi: li rielabora, li trasforma. Non si tratta di una semplice esposizione, ma di un gesto che contamina e rilancia, come gli oggetti lanciati in aria da John Baldessari nel tentativo di tracciare geometrie improbabili. Impareggiabile inventore e costruttore di immagini, Baldessari ha scardinato con sguardo radicale e ironia composta e irresistibile l’idea stessa di autore, di stile, di linguaggio. No Stone Unturned, niente di intentato, il titolo della mostra che si trova in uno degli appunti che si possono vedere in una teca di ephemera lungo il percorso, è già un manifesto. Nell’area Scarpa, un gioiello architettonico incastonato nella Fondazione, che fonde letteralmente gli ambienti con eccezionale misura e maestria, la mostra dedicata al progetto pluripremiato del Diriyah Art Futures di Schiattarella Associati, diventa un esempio compiuto di metalinguaggio architettonico e curatoriale. È una riflessione su ciò che un museo può ancora diventare nell’epoca dell’arte digitale, dell’intelligenza artificiale, dell’immateriale: come se il museo esponesse se stesso, nel cuore di uno spazio che è già, in sé, un programma. In ogni caso, il 5 maggio alla Querini ci siamo aperti a un divenire, e siamo solo all’inizio. 

Quali sono le tue aspettative in termini di sfide e di opportunità per il futuro della Fondazione?  
Le aspettative non sono un orizzonte, sono uno strumento di misura. Il futuro della Querini non è una curva di crescita, ma una linea di fuga: non verso l’alto, ma verso l’altro e verso altro. La vera sfida non è solo esserci come istituzione, ma esserci come differenza peculiare. Forse oggi tutto è connesso ma poco è in relazione. La Fondazione vuole essere un sense-maker. La sfida è mantenere radicalità e leggerezza, visione e rigore, essere high tech e deep human allo stesso tempo. E come direbbe Haraway, dobbiamo imparare a “stare con il problema” se vogliamo davvero risolverlo e per me cultura significa costruire desideri, non solo soddisfarli. 

Alberto Villa 
 
Libri consigliati: 


(Grazie all’affiliazione Amazon riconosce una piccola percentuale ad Artribune sui vostri acquisti) 

Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati

Alberto Villa

Alberto Villa

Nato in provincia di Milano sul finire del 2000, è critico e curatore indipendente. Si laurea in Economia e Management per l'Arte all'Università Bocconi con una tesi sulle produzioni in vetro di Josef Albers e attualmente frequenta il corso di…

Scopri di più