“Collezionista per natura, gallerista per scelta”. A New York per intervistare Hong Gyu Shin 

Tra una collezione eclettica e tredici anni di mostre nel Lower East Side, il gallerista e collezionista coreano, newyorkese d’adozione, ripercorre la storia della Shin Gallery e ci parla del suo modo di guardare l’arte

Classe 1990, enfant prodige del collezionismo, Hong Gyu Shin acquista la sua prima opera a tredici anni e inaugura la sua galleria a ventitré. Da allora, non ha mai smesso di seguire una visione radicale e del tutto personale, dove outsider art, maestri storicizzati e voci emergenti si intrecciano in una narrazione che sfugge ad ogni canone e mette in discussione le strutture del sistema. È così che, sulle pareti di casa sua, un Picasso del 1933 e una piccola tela di van Gogh lanciano sguardi obliqui a una performance di Marina Abramović. Poco oltre, un Sam Francis degli anni Cinquanta fa da contrappunto a un disegno a grafite di Eugène Delacroix, mentre Duchamp gioca ancora, a distanza, con un tavolo da scacchi lasciato incompiuto. Con oltre mille opere all’attivo, molte delle quali oggi in prestito ai più grandi musei – tra cui il MoMA, la Frick Collection, e il Rose Art Museum – Shin porta la sua visione in Corea del Sud: dal 29 aprile, infatti, è protagonista di una mostra al KAIST Art Museum di Daejeon. 

The Shin Collection. The Vault of Masterpieces, KAIST Art Museum, Corea del Sud, 2025. Courtesy Shin Gallery. Photo Ji Ho Jun
The Shin Collection. The Vault of Masterpieces, KAIST Art Museum, Corea del Sud, 2025. Courtesy Shin Gallery. Photo Ji Ho Jun

Intervista a Hong Gyu Shin 

Hai fondato la Shin Gallery giovanissimo. Una scelta che molti definirebbero coraggiosa, se non addirittura temeraria. Cosa ti spingeva allora e cosa ti guida oggi, a più di dieci anni di distanza?  
Quando ho fondato la Shin Gallery, ero ancora uno studente. A spingermi c’erano la necessità e una buona dose di ingenuità. Non avevo esperienza, contatti, o un modello da seguire, ma avevo una convinzione profonda: che l’arte meritevole dovesse avere visibilità, a prescindere dal percorso dell’artista, dalla sua età o dalla sua posizione sul mercato. A distanza di tempo, riconosco che quello slancio nasceva da una fiducia incosciente, da quella leggerezza che spesso accompagna gli inizi — ed è proprio quello stesso spirito che ancora oggi continua ad alimentare il mio lavoro. Con il tempo, però, si è aggiunto un senso di responsabilità più consapevole nei confronti degli artisti, dei collezionisti e della storia.  
 
In un contesto competitivo come quello newyorkese, cosa rende la tua realtà diversa dalle altre? 
Shin Gallery non segue le tendenze, le mette piuttosto in discussione. Costruiamo contesti in cui opere distanti per tempo, linguaggio o sensibilità possono entrare in relazione tra loro. E in una città ipersatura come New York, ciò che ci distingue è proprio il rifiuto di farci definire dalle logiche di mercato. Abbracciamo ciò che è stato trascurato o sottorappresentato, non per strategia, ma per vocazione. 

The Shin Collection. The Vault of Masterpieces, KAIST Art Museum, Corea del Sud, 2025. Courtesy Shin Gallery. Photo Ji Ho Jun
The Shin Collection. The Vault of Masterpieces, KAIST Art Museum, Corea del Sud, 2025. Courtesy Shin Gallery. Photo Ji Ho Jun

Le mostre di Shin Gallery 

Il programma espositivo della Shin Gallery ha sempre posto l’accento su artisti riscoperti, marginalizzati e giovani, spesso trascurati dai canali ufficiali. Cosa ti spinge verso queste figure e come interpreti il tuo ruolo nel dar loro visibilità? 
Sono sempre stato attratto dalla figura dell’outsider, non solo nell’arte, ma anche nella vita. A sedici anni mi sono trasferito da solo negli Stati Uniti, affrontando un contesto completamente nuovo rispetto al mio Paese d’origine. Forse è da questo che nasce la mia affinità con artisti che operano ai margini, che sia per scelta o per circostanza.​ Molti di loro non hanno mai avuto l’opportunità di entrare nei circuiti artistici ufficiali — non per mancanza di valore, ma perché il sistema non era pensato per includerli. Il mio ruolo, come lo vedo oggi, è quello di mettere in discussione quel sistema, anche se solo in piccola parte. Voglio creare uno spazio dove un artista folk del Sud, sconosciuto ai più, possa essere esposto con la stessa attenzione riservata a un maestro moderno. La visibilità non si limita a esporre un’opera su una parete bianca; significa riscrivere la narrazione che la circonda. 
 
Hai più volte descritto la curatela come un dispositivo narrativo. Ogni mostra e ogni nuova presenza in collezione contribuisce a un racconto in divenire che riflette la tua sensibilità e attraversa tanto il tuo ruolo di gallerista quanto quello di collezionista. Guardando al percorso che hai tracciato nel tempo, quale storia credi stia emergendo?  
All’inizio, era una storia che parlava di sopravvivenza e di scoperta, il tentativo di portare alla luce voci rimaste nell’ombra mettendo in discussione i canoni di ciò che viene considerato “rilevante” nell’arte. Con il passare del tempo, quella narrazione si è fatta più profonda. Si è arricchita di sfumature, di curiosità, di risonanze inedite.  
 
C’è stato qualcosa che ti ha sorpreso lungo il cammino?  
Quello che non avevo previsto era l’intensità emotiva del percorso. Ci sono state mostre che mi hanno commosso fino alle lacrime già durante l’allestimento – momenti in cui le opere non si limitavano a parlare, ma addirittura gridavano. Ho fatto scelte che mi hanno messo alla prova, anche duramente. Ma ogni mostra, ogni scoperta, ogni scambio ha aggiunto un tassello a questa storia, che continua a crescere. E forse, in modo ancora più sorprendente, questa storia ha cominciato a includere anche me. Non più soltanto come figura di raccordo, ma come parte integrante del racconto. Non era questo l’intento iniziale, ma ho capito che anche la vulnerabilità fa parte di questa mia narrazione. 

The Shin Collection. The Vault of Masterpieces, KAIST Art Museum, Corea del Sud, 2025. Courtesy Shin Gallery. Photo Ji Ho Jun
The Shin Collection. The Vault of Masterpieces, KAIST Art Museum, Corea del Sud, 2025. Courtesy Shin Gallery. Photo Ji Ho Jun

Hong Gyu Shin e il rapporto tra galleria e collezione 

Ti senti più un collezionista che ha scelto di aprire una galleria, o un gallerista che si è ritrovato — quasi naturalmente — a collezionare?  
Credo di essere stato, prima di tutto, un collezionista — anche ben prima di avere i mezzi per collezionare davvero. Da bambino raccoglievo storie, immagini, ricordi. Quell’istinto mi ha accompagnato fino all’età adulta. La galleria è nata proprio da lì, da quell’impulso: il desiderio di raccogliere e condividere ciò che mi emoziona. Col tempo, però, mi sono riconosciuto sempre di più nel ruolo di gallerista. C’è qualcosa di quasi alchemico nell’intrecciare le opere, nel costruire una visione che supera l’individuo. Forse, alla fine, sono entrambe le cose: collezionista per natura, gallerista per scelta.  
 
E in che misura pensi queste due identità si influenzino reciprocamente? 
Queste due dimensioni convivono, si alimentano a vicenda, ma allo stesso tempo restano distinte e indipendenti l’una dall’altra. La galleria è una piattaforma: è il luogo in cui metto insieme voci diverse per avviare un dialogo. La collezione, invece, è più intima — riflette le mie ossessioni, i miei ricordi, perfino le mie contraddizioni. Detto questo, esiste un dialogo continuo tra le due. Un’opera che entra in collezione può ispirare una mostra futura. E una mostra può portarmi a scoprire un artista, il cui lavoro finisce poi sulle pareti di casa. È un dialogo a doppio senso, e a volte i confini si confondono. Ma credo che proprio in questo risieda parte della bellezza — in quella danza tra visione pubblica e passione privata, fatta anche di intimità. 

In linea con lo spirito spiazzante delle Wunderkammer, la tua collezione mette in relazione opere che appartengono a epoche, contesti e linguaggi profondamente diversi — da un disegno settecentesco di Boucher a una scultura di Hans Bellmer, da un lavoro di Tracey Emin a un oggetto rituale di David Drake. Accostamenti come questi generano cortocircuiti visivi e concettuali che sembrano disinnescare i dispositivi canonici della storia dell’arte. Cosa guida queste tue scelte? 
Esattamente — la mia collezione funziona proprio come una Wunderkammer, ma con un’anima. Non si tratta di accostare opere per creare effetto o stupore, ma di far emergere risonanze inaspettate attraverso epoche e geografie diverse. Quando metto un disegno di van Gogh accanto a una scultura di Marisol Escobar, artista iconica e al tempo stesso enigmatica, o a un’opera performativa di Marina Abramović, non sto azzerando le gerarchie: ne sto proponendo una nuova. Una in cui a contare sono l’emozione, la visione, l’urgenza — più che il lignaggio. Le tensioni che si generano — tra passato e presente, tra canone e marginalità — sono proprio il luogo in cui nasce la magia. Sono ciò che ci costringe a guardare di nuovo, a sentire più a fondo, a chiederci: cosa perdiamo quando osserviamo l’arte solo attraverso la lente della cronologia? 

Quali direzioni future intravedi – per te e per la Shin Gallery?  C’è una parte della tua storia che senti di non aver ancora raccontato? 
Ha appena inaugurato la prima mostra della mia collezione in Asia, al KAIST Art Museum di Daejeon, nella Corea del Sud. Per l’occasione, ho ricreato all’interno del museo il mio appartamento e il mio archivio: non è una mostra tradizionale, ma una sorta di autoritratto, costruito attraverso la mia collezione e le narrazioni che porta con sé. Parallelamente, sto sviluppando un diario fotografico che intreccia il mio percorso con le vite e le eredità degli artisti che mi hanno influenzato — alcuni celebrati, molti altri dimenticati. Un progetto ibrido, a metà tra memoir e manifesto. Per quanto riguarda la Shin Gallery, il prossimo capitolo sarà ancora più radicale: ci addentreremo più a fondo nella storia, nella ricerca, nell’assunzione di rischio. Stiamo lavorando a mostre che mirano a mettere in discussione i presupposti stessi della storia dell’arte. E se c’è un aspetto del mio percorso che non è ancora emerso del tutto, è questo: non sono arrivato per accettare le regole del gioco. Sono arrivato per riscriverle. E questa è solo la prima pagina. 

Beatrice Caprioli 
 
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