CIMA. L’arte italiana nell’era di Trump

La direttrice artistica del Centro Italiano per l’Arte Moderna di New York, Heather Ewing, illustra programmi passati e futuri di uno fra gli incubatori di ricerca sull’arte Italiana più attivi in America. Tra Savinio, Paolini, Morandi ma anche Tacita Dean, Louise Bourgeois e Wolfgang Laib, la direttrice rileva alcuni cambiamenti epocali in ambito culturale, dopo l’avvento di Trump.

L’ampio loft di Soho che accoglie il CIMA ‒ Center for Italian Modern Art, fondato nel 2014 da Laura Mattioli, oggi non è più solamente uno spazio aperto agli studiosi di arte moderna italiana, né una finestra che si affaccia sui capolavori del Novecento nostrano – così come è successo con la prima mostra di apertura, dedicata a un dialogo tra Fortunato Depero e Fabio Mauri. La sua direttrice, Heather Ewing, tre anni fa aveva affermato: “Stiamo cercando di creare un luogo dove giovani ricercatori, lavorando insieme sul tema o sul progetto annuale di CIMA, abbiano la possibilità di imparare gli uni dagli altri e di confrontarsi con diverse metodologie e approcci. […] Uno degli scopi di CIMA è di incoraggiare più studenti a dedicare i loro studi alle opportunità di ricerca nel campo dell’arte italiana del XX secolo. Ma dopo l’era Obama, le priorità e i messaggi che l’arte italiana a New York deve trasmettere sono cambiati.
Il prossimo 3 febbraio, anticipa la direttrice, “abbiamo in programma uno study day su Léonce Rosenberg. Una giornata di studi dedicata al progetto che lui aveva attuato all’interno del proprio appartamento a Parigi, dove ogni artista era stato chiamato a esporre in una stanza. Erano stati presentati lavori composti appositamente per lo storico dell’arte e collezionista parigino da parte di de Chirico, Picabia, Savinio, Léger, Ernst e molti altri. Siccome lo scorso anno abbiamo esposto tre dipinti di de Chirico commissionati da Rosenberg, “I gladiatori”, e c’è un fellow proprio del 2016, Giovanni Cassini, che sta lavorando a Londra su una tesi di dottorato dedicata all’art dealer francese, abbiamo anche invitato a intervenire un curatore dal MoMA che parlerà di Picabia, Matthew Affron da Philadelphia che presenterà Léger e un nostro fellow attuale che si concentrerà su Savinio. Infatti ci sono due dipinti, nella mostra in corso, che il pittore italiano aveva composto per Rosenberg.

Invece quale artista italiano approfondirà la figura di Savinio?
Speriamo di avere Francesco Clemente, perché lui si è occupato molto di Savinio e ha fatto una serie di opere a lui ispirata. Clemente verrà a New York nelle prossime settimane e ne parleremo. Poi faremo una serie di artist talk sui gemelli e si intitolerà Dioscuri. Giovani artisti fratelli, ma anche gemelli, ispirati dal rapporto tra de Chirico e Savinio, dal modo di collaborare insieme e di creare arte.

Alberto Savinio, L’Île des Charmes, 1928. Museo d'Arte Moderna _Mario Rimoldi_, Cortina d'Ampezzo. (c) 2017 Artists Rights Society (ARS) _ SIAE, Rome

Alberto Savinio, L’Île des Charmes, 1928. Museo d’Arte Moderna _Mario Rimoldi_, Cortina d’Ampezzo. (c) 2017 Artists Rights Society (ARS) _ SIAE, Rome

E la prossima mostra?
La prossima mostra sarà dedicata a Marino Marini. Mentre quest’anno il dialogo è tra Savinio e Louise Bourgeois, un binomio, una conversazione che ricostruisce un certo tipo di contesto parigino degli Anni Trenta. Poi si inserisce l’idea della metamorfosi uomo-animale. Inoltre, i due artisti hanno in comune il superamento dei contesti famigliari di origine e i rapporti burrascosi che diventano soggetto dell’arte. C’è un accostamento molto particolare che abbiamo operato, al riguardo. In una stanza, infatti, abbiamo esposto litografie di entrambi gli artisti accompagnati da documenti e testi, in una sorta di anatomia comparata. Qui si scopre l’intimità.

Le artiste femminili, però, al CIMA sono molto poco rappresentate…
Due anni fa, con Morandi, abbiamo avuto ospite Tacita Dean, ed era la prima volta. Comunque il nostro Comitato Scientifico ne parla spesso: dobbiamo valorizzare più figure femminili. Lo scorso anno, quando sono arrivate Carol Rama e Marisa Merz a New York, siccome noi avevamo esposto un’installazione di Giulio Paolini, abbiamo organizzato tre programmi: al New Museum, al MET e da noi, con Germano Celant, per approfondire il contesto e la storia femminile dell’Arte Povera.

Dunque non solo arte moderna, ma anche contemporaneo. Come si sta evolvendo il lasso temporale preso in esame da CIMA?
Le nostre incursioni temporali nella storia dell’arte non sono strettamente definite. Medardo Rosso è stato l’artista più antico che abbiamo approfondito. Lo scorso anno, con de Chirico, ad esempio, abbiamo presentato come soggetto e non solo come accostamento in dialogo anche Paolini ed è stato per noi il primo artista vivente a essere valorizzato da CIMA. È difficile per noi, perché, se ci addentriamo nel campo della contemporaneità, verremo sicuramente inondati da richieste che non riusciremo a evadere da soli [ride, N. d. R.]. Fino a oggi, il Comitato non ha accettato proposte dall’esterno, ma non è detto che non succeda. Il nostro obiettivo resta la promozione dell’arte italiana non conosciuta negli Stati Uniti. Mentre l’Arte Povera, attualmente, sta avendo un momento di gloria anche con l’apertura di Magazzino. Per i borsisti è molto importante focalizzarsi sugli archivi. Noi vorremmo analizzare di più questi rapporti, mettendo anche in luce le problematiche che sottendono le raccolte dietro i cataloghi ragionati.

CIMA - Center for Italian Modern Art, New York 2014 - photo Walter Smalling Jr.

CIMA – Center for Italian Modern Art, New York 2014 – photo Walter Smalling Jr.

Quanto si protrae, dunque, mediamente, la preparazione di una mostra?
L’esperienza al CIMA è focalizzata sulle opere. Da subito Laura Mattioli si è resa conto che avere l’opportunità di imparare direttamente dalle opere e dai documenti originali è un’esperienza completamente diversa rispetto al mero studio sui libri. Dunque l’intenzione è sempre quella di offrire a questi giovani storici l’opportunità di vivere l’arte. E siccome non abbiamo un archivio o un caveau così estesi a New York, sicuramente è meglio rimanere in Italia, per fare ricerca intensiva, ma in America si può avere un’idea più estesa, più oggettiva su approcci e metodologie che interessano la storia dell’arte italiana; entrambi i versanti sono molto diversi rispetto alle impostazioni Italiane. Ci auguriamo di creare una conversazione pratica fra questi due mondi. Abbiamo creato una piccola associazione di borsisti del MET, del MoMA e di altre istituzioni e spesso ci riuniamo.

Quale carattere assumono le mostre al CIMA?
Nonostante possa sembrare il contrario, le nostre mostre prevedono non più di un anno di ricerca, sono molto brevi. Inoltre, non avendo un curatore, le nostre mostre non sono nate per avere carattere didattico in senso esteso, perché sono il risultato di ricerche specifiche e non di una esposizione illustrativa o cronologica dei lavori. Noi fungiamo da incipit delle ricerche, seguendo i borsisti. Ad esempio produciamo anche piccole pubblicazioni, record, documentazioni delle mostre, con molte installation view che mostrino il dialogo tra le opere e l’architettura del loft. All’interno l’unico testo è una biografia composta dai borsisti. Inoltre vorremmo creare una sezione che raccolga digitalmente le risorse utilizzate, nel nostro sito, diventando una sorta di growing catalogue. Vorremmo realizzare una sorta di giornale online, utile per i ricercatori.

Come si è modificata la mission iniziale di CIMA, nel tempo?
Vorremmo sempre offrire a un pubblico internazionale un modello espositivo differente, tra galleria e museo. Siamo a tutti gli effetti una residenza e, quando vieni da noi, puoi prendere un caffè in cucina, incontrare i nostri borsisti e fare un’esperienza di slow art. Tipicamente italiana, molto intima, per un maggiore close looking. Spesso, ad esempio, organizziamo drawing nights, offrendo punti di vista sulle opere, con occhi diversi. Comunque l’apertura ad artisti italiani di diverse generazioni, un altro punto di trasformazione, è in discussione. Vorremmo offrire un approccio sempre più familiare al nostro pubblico, relativo all’arte italiana, così come stiamo facendo con Savinio, che non è assolutamente conosciuto in America. Non dobbiamo, inoltre, essere strettamente storici, ma, talvolta, come è successo con la sostanzialità di Morandi di fronte alla barca di cera di Wolgang Laib, abbiamo cercato di creare nuove percezioni, nuove estetiche comparate.

Alberto Savinio, I miei genitori, 1945. Collezione privata. (c) 2017 Artists Rights Society (ARS) _ SIAE, Rome. Photo Dario Lasagni

Alberto Savinio, I miei genitori, 1945. Collezione privata. (c) 2017 Artists Rights Society (ARS) _ SIAE, Rome. Photo Dario Lasagni

Il vostro pubblico si è ampliato notevolmente.
Anche se avremmo dovuto fungere da incubatori, da nuclei di approfondimento per mostre molto più ampie ‒ come è successo per la nostra ricerca su Depero, andata a Madrid, alla Fundatìon Juan March, utilizzando i nostri borsisti per il catalogo, oppure, subito dopo la nostra mostra di Medardo Rosso, a New York, quando il MoMA ha esposto alcuni lavori dalla propria collezione, dopo quarant’anni; o anche nel momento in cui il MET Breuer ha scelto delle opere di Rosso dalla collezione del CIMA, per Unfinished ‒, oggi siamo fieri di portare avanti, per la prima volta anche i family program. Spesso, inoltre, abbiamo anche turisti che non sanno nulla di arte, senza dimenticare ragazzi tra gli 8 e gli 11 anni che hanno apprezzato moltissimo l’arte concettuale.

Com’è cambiato il clima culturale con l’amministrazione Trump?
Il CIMA è un ente pubblico e ovviamente stiamo subendo il clima di indecisione, nei confronti dei tagli e delle facilitazioni, del governo attuale. Gli Stati Uniti sono usciti dall’UNESCO. C’è un’incertezza palpabile, siamo tutti spaventati da quel che potrà succedere: tutti i nostri borsisti avranno bisogno di visti, in futuro, e le restrizioni sono state davvero evidenti. Con l’elezione di Trump si ha la sensazione che questo mostro sepolto dentro di noi sia definitivamente uscito. Non ce lo aspettavamo, nessuno poteva immaginarlo. Dopo lo shock, noi abbiamo radunato tutti gli spazi non-profit, public art spaces, una ventina, di stanza a Soho, e abbiamo organizzato un evento. E nonostante ci fosse stata la grande marcia, abbiamo avuto comunque molti ospiti perché la gente aveva paura a manifestare, ad andare per le strade, anche a causa del terrorismo. Non mi sarei mai aspettata tanto pubblico al CIMA. È stato molto bello. Mi auguro che, su questa scia, si possa diventare una risorsa del passato, per capire cosa ci sta succedendo, per trovare le giuste chiavi di lettura.

Ginevra Bria

www.italianmodernart.org

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Ginevra Bria

Ginevra Bria

Ginevra Bria è critico d’arte e curatore di Isisuf – Istituto Internazionale di Studi sul Futurismo di Milano. È specializzata in arte contemporanea latinoamericana.

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