C’era una volta la Strada Novissima. Intervista con Rem Koolhaas

Tra la fine degli Anni Settanta e l’inizio degli Anni Ottanta, a Rem Koolhaas e a OMA succede di tutto. Esce il libro “Delirious New York”, c’è la partecipazione alla Biennale di Venezia diretta da Paolo Portoghesi, c’è il postmodernismo e il decostruttivismo, le mostre al MoMA e al Pompidou. Un tuffo nella storia, in questa intervista con Koolhaas e Stefano de Martino.

Nel 1980, OMA fu tra i venti studi invitati a partecipare alla Strada Novissima alla prima Biennale di Architettura di Venezia, intitolata La presenza del passato. L’anno scorso, nel catalogo della 14. Biennale di Architettura, ti sei riferito a quella mostra scrivendo che “sembrava essere la fine dell’architettura così come la conoscevamo”, sottolineando l’inizio dell’era Reagan nel 1981 e l’avvento del neoliberismo. La Strada Novissima era un mercato, il perfetto spazio performativo della consunzione. Come hai percepito questo cruciale momento “postmoderno”?
Ritengo che il 1980 segni l’introduzione del postmodernismo in Europa in una scala enorme. Ho sempre pensato che il postmodernismo fosse lo stile par excellence dell’economia di mercato. C’era una strana discrepanza: probabilmente i pensatori coinvolti nella mostra avevano l’impressione di lavorare a un’impresa altamente intellettuale, con moltissime dimensioni e sofisticazioni storiche. Ma in effetti, al tempo, io percepii l’esposizione come la prima manifestazione del libero mercato. La Strada Novissima mostrava cosa avrebbe implicato l’architettura regolamentata dall’economia di mercato.

Non era il principio del postmodernismo, era meramente la sua diffusione al grande pubblico.
Era l’europeizzazione del postmodernismo. Negli Anni Settanta vivevo a New York, quindi ero lì quando il postmodernismo americano è nato e quando gli argomenti in suo favore venivano sviluppati. Avevo una visione d’insieme personale di tutti gli autori e di come interagivano. Ero conscio di cosa implicasse il postmodernismo ed ero inorridito quando realizzai che aveva raggiunto l’Europa. Questa è probabilmente la ragione per la quale tentai di mostrare una forte opposizione ad esso. Prendere parte alla Biennale di Architettura di Venezia nel 1980 era l’occasione per rendere manifesta la mia opposizione.

Nel catalogo si legge che ti venne chiesto di disegnare una facciata: “La tua dimora o un museo personale, uno spazio per esporre o ‘vendere’ le tue idee”. In altre parole: un cartellone o un autoritratto. Tu scelsi un design molto semplice: una tela semi-traslucida, che esponeva l’Arsenale. Sollevato nell’angolo in basso a sinistra, il tessuto era perforato da un’asta rossa che reggeva un segnale al neon che diceva OMA (o AMO). La tua facciata non era una copia della facciata di un altro progetto. Era un progetto in sé. Come ti venne in mente?
Stefano fece i disegni. Avevamo sempre difficoltà a disegnare le facciate, quindi questo progetto in qualche modo ci ha messo di fronte alla nostra incompetenza. Dovevamo fare una sorta di anti-facciata o di non-facciata.
STEFANO DE MARTINO: Il pezzo di tela era uno schermo temporaneo – l’unica concessione a una presenza esterna era il neon di OMA. Non prendemmo parte al gioco formalista, bensì provammo che l’architettura può essere molto piccola, che puoi concentrarti sui contenuti.

Strada Novissima - Image courtesy of OMA

Strada Novissima – Image courtesy of OMA

Rem, nel 2011, in una intervista con Charles Jencks su Architectural Design, hai detto: “Non siamo a nostro agio con la nozione di strada”.
Odio l’idea di dover fare una facciata, ancor di più se si tratta di una facciata che rappresenta se stessi. Quindi c’erano essenzialmente parecchie cose che volevamo evitare.
S.D.M.: Sì, e la Biennale confermò che eravamo sulla strada giusta. Sapere che eravamo in minoranza era esilarante. Abbiamo sconvolto un sacco di gente. Tutti gli altri cascarono nella partigianeria: gli architetti morfologi che non riescono a non considerare le città come pezzi di formaggio che puoi tagliare a pezzi, e quelli che pensano soltanto al “fattore wow” delle loro invenzioni… Stavamo provando a capire cos’era essenziale, prima di dover usare i mattoni. Quando hai un sistema di relazioni, hai l’architettura.

La vostra facciata, come tutte le altre, fu costruita dagli scenografi di Cinecittà. In che modo questa collaborazione imposta fra architettura e cinema cambiò il risultato? Possiamo parlare di un elemento finzionale nella facciata?
La nostra facciata era fondamentalmente diversa. Non era nemmeno realizzata dai tecnici di Cinecittà. Ma penso che il ruolo di Cinecittà in mostra sia stato tremendamente interessante, nel senso che rappresentava un primo annuncio di come sarebbe diventata in-sostanziale l’architettura. Anche Delirious New York riguardava questo fenomeno: mostrare come l’architettura non fosse più sostanza ma illusione.
S.D.M.: Non siamo mai cascati nel “facciatismo”. Forse adesso che tutto concerne le facciate, non senti più questa parola, ma al tempo era un insulto. Consideravamo Strada Novissima come una specie di villaggio Potemkin postmoderno. Conoscendo le persone invitate, potevamo immaginare benissimo cosa sarebbe successo. Sapevamo che sarebbe stato un orrendo pastiche. Il nostro progetto andava in un’altra direzione: era effimero, non-referenziale, e produceva la propria logica, definendo invece una situazione.

Dietro la facciata, presentavate due progetti connessi alla preservazione: uno che aveva a che fare con una fortezza medioevale, l’estensione del Parlamento olandese a L’Aja (1978); l’altro era il restauro della prigione panottica ad Arnhem (1980). Questi progetti entravano in risonanza con il movimento del muro: riguardavano l’apertura del muro, la creazione di una breccia. Come e perché era esposti questi progetti?
Non avevamo molti lavori e questi erano le due cose a cui stavamo lavorando. Per coincidenza, erano entrambi indirizzati alla conversione di compound storici. L’approccio non calzava con la mentalità della mostra. Era una comoda dimostrazione di come la storia possa essere approcciata in un modo diverso. Soltanto quando iniziai a lavorare a Cronocaos capii quanto importante sia stato questo tema nel nostro lavoro. Per certi versi, sono un figlio di quella mentalità, ma prese un’espressione diversa.

Boompjes - Image courtesy of OMA

Boompjes – Image courtesy of OMA

Hai elaborato il progetto per la Strada Novissima in parallelo allo studio per Boompjes Rotterdam (1980) e per i progetti abitativi a Berlino, Kochstrasse/Friedrichstrasse (1980) e Lützowstrasse (per IBA 1984).
Per Boompjes siamo stati invitati dopo la Biennale. Era il momento della separazione fra Elia Zenghelis e me. Il progetto per il Parlamento olandese era ancora una collaborazione, mentre quello per la prigione era già soltanto nostro. La separazione non era mai stata sulle questioni tecniche, semplicemente diventò difficile lavorare sull’emergenza di un ufficio d’architettura, come team. Non penso che la Biennale abbia influenzato questi progetti, e nemmeno le altre cose, ma può darsi che la Biennale rese possibile Boompjes, che ci abbia aiutato a ottenere la commissione. Stavano succedendo parecchie cose tutte insieme: nel 1978 avevo pubblicato Delirious New York, poi abbiamo vinto il concorso per il Parlamento olandese, e poi c’è stata la Biennale.
S.D.M.: Il progetto per Koch/Friedrichstrasse era un’alternativa all’idea di città preponderate all’epoca – la strada, le facciate, gli isolati… Il modello era la casa con la corte interna, che ha un confine ma non una facciata, e un vuoto al centro, l’inverso di un isolato. Il progetto era vicino al Muro di Berlino, su un sito in cui rimaneva poco sostanza: sembrava quasi un progetto contestuale…

Quando si imbarcò nell’impresa spaventosa di organizzare la Biennale, Portoghesi chiese a Charles Jencks ma anche a Robert Stern, Christian Norberg-Schulz, Vincent Scully e Kenneth Frampton di far parte del comitato organizzatore – presto Frampton lasciò perché non condivideva le posizioni curatoriali e teoriche. Chi pensi sia responsabile per la vostra presenza?
Penso sia stato Jencks. Io non conoscevo Portoghesi. Alla Biennale gli strinsi la mano, ma a malapena gli parlai. Col senno di poi, penso sia un architetto molto interessante. Ma con Jencks e Frampton ero in una situazione estremamente instabile. Ero un amico di Jencks dal 1968, quando lo incontrai all’AA. Ovviamente non condividevo affatto le sue posizioni e non le condivido tuttora, ma siamo rimasti buoni amici. Poco dopo, negli Anni Settanta, divenni amico di Frampton. Negli Anni Settanta, condividevo la sua posizione. Quando stavo scrivendo Delirious New York, divenne sempre più negativo sul mio lavoro. Pensava fosse terribile scrivere su Dalí. All’inizio degli Anni Settanta Frampton aveva una buona opinione di me; alla fine del decennio, ne aveva una cattiva.

Un altro “gruppo ufficiale” arrivò otto anni dopo, quando tu presi parte alla mostra Deconstructivist Architecture al MoMA.
Nella Strada Novissima la maggior parte delle persone supportava e avallava il messaggio della mostra. Pensavano di poter asserire una cosa particolare. Ma nessuno voleva essere un decostruttivista. In questo senso, il 1980 è stato l’ultimo momento in cui è emersa una sorta di coerenza fra gli architetti; nel 1988 era diventato impossibile.

Panopticon - Image courtesy of OMA

Panopticon – Image courtesy of OMA

La Strada Novissima ha segnato la fine di un accordo fra architetti?
Esatto. Se c’era qualcuno che era responsabile per la mostra Decostruttivista, era Johnson. Sentiva veramente la necessità di riaffermare il suo potere e imporre un’agenda. Era convinto di essere il vero curatore del XX secolo.

Dopo cosa successe? È difficile valutare o misurare l’“impatto” di una mostra ma è interessante interrogare il salto dalla strada di cartapesta all’architettura postmoderna degli Anni Ottanta. Qualcuno considera l’IBA, l’Internationale Bauaustellung in Berlin, come una trasposizione della Strada in città.
C’è sicuramente una connessione. È difficile: in un certo momento, qualcosa è nell’aria…
S.D.M.: L’IBA doveva molto alla Strada. Nel 1979, arrivarono Josef Paul Kleihues e Vittorio Lampugnani alla direzione dell’IBA, i quali proponevano l’idea di ricostruzione critica per riempire una città che stava perdendo frotte di abitanti. Operavano con l’idea di completare le strade dove non c’erano più non erano state lasciate strade, qualcosa come Woody Allen che clona il Leader a partire dal suo naso ne Il dormiglione… Ovviamente la Strada Novissima era un cadavre exquis, mostrava come fosse possibile produrre diversità all’interno di un rigido schema.

Quindi, retrospettivamente, eri postmoderno?
Non saprei. Penso che tutti lo siano. Una delle mostre di cui ero felice di far parte fu Les Immatériaux al Centre Pompidou nel 1985. Mi sentivo veramente a casa, molto più che alla Biennale, e molto più che alla mostra sull’Architettura decostruttivista. In Les Immatériaux mostrai il Boompjes project, che fra l’altro è molto simile all’edificio di Rotterdam che ho recentemente (e finalmente) realizzato. Mi sentivo vicino a quella mostra perché non era connnessa a un movimento architettonico: proponeva una sorta di pensiero attraverso una condizione. Sono sempre stato più vicino a Lyotard e Latour o ad altri intellettuali francesi che a qualsiasi altro in America o Inghilterra. Era esilarante! Era il Pompidou al suo apice e alla sia massima profondità. Non aveva niente a che fare con la materia o la sostanza – si trattava di pensiero.

Léa-Catherine Szacka

Estratto dall’intervista originariamente pubblicata, col titolo “Translucent oppositions. OMA’s proposal for the 1980 Venice Architecture Biennale”, su OASE Journal for Architecture, #94 – OMA. The First Decade, aprile 2015
www.oasejournal.nl/en/Issues/94

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Léa-Catherine Szacka

Léa-Catherine Szacka

Léa-Catherine Szacka (PhD) è un architetto, storica dell’architettura e saggista che vive a Parigi e Oslo. Docente alla AHO – Oslo School of Architecture, la sua ricerca è incentrata sulle esposizioni di architettura, con un particolare interesse per la storia…

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