Cartoline da Manifesta. Il reportage di Pietro Consolandi e Dario Forti

Con un’ironia che sa tenere il colpo, Pietro Consolandi e Dario Forti ripercorrono in prima persona le giornate di Manifesta riservate alla stampa. Senza risparmiare critiche ed elogi.

Raccontare un festival di arte contemporanea, con le sue pulsioni centrifughe e i suoi codici esoterici, può diventare complicato ‒ se non un’esperienza frustrante tout court ‒ sia per chi scrive che per chi legge. Per esempio, potrebbe capitarvi di leggere frasi pretenziose come “con le sue pulsioni centrifughe e i suoi codici esoterici”, imbattervi in comunicati stampa mangiati, ri-vomitati e spacciati per reportage alla maniera con cui mamma uccello nutre i suoi teneri pulcini vomitandogli il cibo masticato nei becchi, leccate di culo che neanche i miei gatti dopo la tappa alla lettiera, sferzanti giudizi e illuminanti critiche quali “le cose belle sono belle quelle brutte sono brutte”.
Per questa ragione abbiamo deciso di segnarne uno per la squadra di noi giovani annoiati post-ironici, metterci i nostri costumi da Carl Brave e Franco126, spaccarci tre Peroni a testa e spedirvi cinque Polaroid da Manifesta, ognuna dedicata a uno specifico tema che ci ha colpito.

MANIFESTA VS IL PROPRIO PUBBLICO

Non giriamoci intorno, Manifesta 12 a Palermo è stata una notizia bomba tanto per il mondo dell’arte italiano quanto per i palermitani disinteressati all’arte, come ci fa subito notare un signore in coda per il panino con la milza da Franco ‒ prima tappa obbligata dopo il volo serale dal Nord ‒ notando la nostra elegante shopper e il pass fieramente esibito: “Voi siete qui per Manifesta, ma Manifesta Manifesta, non hanno portato niente questi…”.
E proprio a questo genere di situazioni avranno pensato in molti all’annuncio della direttrice Hedwig Fijen della scelta della città siciliana dopo l’edizione passata a Zurigo; battutine sul ritmo di vita mediterraneo rispetto a quello olandese-tedesco-svizzero, commenti fuori luogo sull’efficienza della città e dei suoi netturbini, Scilipoti, arancine, pacchi da giù e teatrini vari.
La scelta quindi di inaugurare il public program con le performance inclusive di Jelili Atiku e soprattutto Matilde Cassani nella giornata seguente è altamente indicativa di questo: coniugare i due pubblici in maniera armonica senza creare gerarchie o rifugiarsi in approcci criptici che spesso escludono coloro che, per comodità di comunicazione, indicheremo come casualoni: l’appassionato che la Curva Nord dell’Arte definirebbe con malcelato disprezzo occasionale, più preoccupato della resa di un’opera sul proprio account Instagram che di comprenderne l’essenza.

Manifesta 12. Palermo, 2018. La performance di Matilde Cassani

Manifesta 12. Palermo, 2018. La performance di Matilde Cassani

A fronte quindi di un pubblico in mezzo al quale non ti venga immediatamente voglia di essere uscito di casa con la tua giacchetta di tritolo, c’è purtroppo sempre l’eccezione che conferma la regola, e nel nostro caso ci viene a sbattere addosso appena finita la performance di Cassani, una pioggia di coriandoli colorati che evoca il corteo di Santa Rosalia: un collega, corazzato del suo pass verde ‘PRESS’, forse non sazio dei dieci minuti durante i quali ben quattro cannoni hanno sparato ininterrottamente coriandoli in aria fino a oscurare il cielo, decide di fare una festa tutta sua con blackjack e squillo di lusso. Un po’ alla stessa maniera di LeBron James, che prima di pucciarne cinquanta in testa a qualunque sfigato inadeguato incaricato di marcarlo quella sera, raccoglie fra le mani due cumuli di talco lanciandolo in aria fino a formare una nuvola, così il collega inizia a raccogliere da terra cumuli di coriandoli, lanciandoli in aria per re-inscenare la performance appena avvenuta e scattare delle freschissime foto di prima mano. Ci starebbe una riflessione su autenticità e riproducibilità dell’arte nell’era digitale, ma noi scimmiette ammaestrate siamo qui solo per dire le parolacce e farvi ridere.

Manifesta 12. Palermo, 2018. Giornalisti che tentano di rifare la performance di Matilde Cassani

Manifesta 12. Palermo, 2018. Giornalisti che tentano di rifare la performance di Matilde Cassani

Un po’ peggio che a noi va alla povera Nora Turato, che presenta una performance e un’installazione audio piuttosto sfrontata all’interno dell’Oratorio di San Lorenzo. La meravigliosa chiesetta, contenente una riproduzione tecnologica della Natività del Caravaggio trafugata nel 1969, è riempita da un flusso di coscienza dell’artista in inglese su temi intimi e riservati. Il pubblico si divide nettamente, soprattutto nei commenti sul guestbook, che notoriamente solleva dalla responsabilità delle proprie parole. Assistiamo anche a Nora leggerne alcuni estratti, non esattamente carini.

Manifesta 12. Palermo, 2018. Una pagina del guestbook di Nora Turato

Manifesta 12. Palermo, 2018. Una pagina del guestbook di Nora Turato

Altra storia degna di menzione ci accoglie in città – prima ancora di fare visita al già citato Franco – con la performance di Nuvola Ravera Per necessità o per diletto, evento collaterale organizzato dal sodalizio THE MEGA VIEW nei Giardini di Villa Garibaldi.
Nuvola ha faticosamente radunato diversi pittori palermitani incaricandoli di realizzare una documentazione non convenzionale ‒ pittorica ‒ della tre giorni di festa d’artista che sarebbe andata a crearsi magicamente di fronte a loro con parte del mondo dell’arte a riposo post opening. Mondo a quanto pare decisamente stranito nel rapportarsi alla pittura in quanto i suoi esponenti, accortisi dell’insolito ritratto in mezzo a cui si sono trovati, si danno inizialmente alla fuga nonostante i dischi di Rä di Martino, le installazioni luminose e i bicchieri di design, rifugiandosi al sicuro alle spalle dei pittori e lasciandoli a dipingere una scena lontana dal Bal au moulin de la Galette che avevano sognato.
L’opera quindi può dirsi andata a buon fine, avendo intimorito un pubblico – per quanto specializzato – poco avvezzo a quanto creato dall’artista che, a performance terminata, commenta ai nostri microfoni: “Sembrava che nessuno volesse essere oggetto di studio, quasi come se una voce interna li facesse sentire animali in gabbia in uno zoo palermitano. Allora tutti si spostavano nervosi, volendo essere loro stessi gli osservatori di animali di una specie diversa”.
Una specie di rivalsa dell’artista sul pubblico dunque, se questo potesse consolare Nora.

Manifesta 12. Palermo, 2018. Nuvola Ravera, Cosmorama, Palermo 2018. Photo credit Nuvola Ravera

Manifesta 12. Palermo, 2018. Nuvola Ravera, Cosmorama, Palermo 2018. Photo credit Nuvola Ravera

MANIFESTA VS PAESEREALE

Come ogni grande evento che si presenti con profonde velleità culturali, una delle più grandi sfide da affrontare per Manifesta era l’armonizzazione non tanto col proprio pubblico ma soprattutto col tessuto cittadino, persone completamente estranee al mondo dell’arte: il paesereale, come lo chiamiamo noi persone troppo educate o troppo impegnate per chiamarlo col suo nome completo di “figli della dispersione scolastica che non infilerebbero un congiuntivo corretto nemmeno se ne andasse della loro vita dei loro cari, ma buoni sì coglioni no”.
Beh, complimenti vivissimi Manifesta: missione gloriosamente fallita. Come ne Il giardino dei gatti ostinati di Calvino, in cui si scopre che gatti e uomini abitano nella stessa maniera la città senza venire mai davvero in contatto, Palermo si è trovata a ospitare due tribù conviventi ma invisibili l’una all’altra se non per piccoli lampi intravisti con la coda dell’occhio, con l’unica differenza che al posto della villetta della marchesa il popolo bizzoso e affamato dell’arte si riuniva da Franco U’ Vastiddaru.
Una comunicazione fra i due mondi, l’unico vero stargate, sono stati i graffiti e le scritte sui muri delle mostre, residui di epoche in cui le location non erano “maestose testimonianze di decadenza”, come le ha chiamate un’artista con cui siamo andati a cena, ma più prosaicamente testimonianze di decadenza, come le avrei definite io che la cosa più artistica che abbia mai fatto è stata mandare un disegno fatto con Paint alla ragazza che mi fa sognare per il suo compleanno.

Manifesta 12. Palermo, 2018. Un commento preesistente

Manifesta 12. Palermo, 2018. Un commento preesistente

A classici intramontabili come SUCA, un inflessibile odio per la rispettabilissima società della SS Lazio e numeri di telefono di sventurat* palermitan* accoppiati a promesse di pompini galattici si affiancavano più complesse testimonianze in dialetto o qualche istanza politica di protesta contro passati governi o giunte. Erano lì prima, saranno lì anche dopo, in molti casi erano roba più interessante di qualsiasi compitino che un ARTIVISTA qualunque potesse partorire approcciandosi alla questione del MUOS (cfr. 2 bellezze ‒ 2 brutture) e a chi li ha fatti probabilmente fregaunca di essere endorsato su Artribune. Così va la vita.
Anche se forse la cosa più paesereale che ci è capitata di vedere è stata la famiglia di palermitani schierata a prendere il fresco su due file disposte ad ali a fianco del passaggio di entrata per Palazzo Forcella De Seta, un’accozzaglia così densa di cliché (le sedie pieghevoli di plastica, i fisici di chi probabilmente mangia fritta anche l’ostia della messa domenicale, le urla tra figlie e madri da strada a balcone, il ragazzino con la maglia tarocca di Coronado) che non ci è sembrata improbabile l’idea che fosse soltanto un’articolata mascherata neorealista finanziata dall’assessore del turismo per soddisfare le aspettative di noi gente del Nord. Avremmo voluto fare anche delle foto ma la nostra paura di scherzare con QUELLO SBAGLIATO (un’altra figura mitologica tipo Bigfoot o Dio: sempre sentito parlarne, mai incontrato, ma aiuta il turismo e a comportarsi rettamente) ci ha fatto desistere.

Manifesta 12. Palermo, 2018. Il traffico bloccato durante la performance di Marinella Senatore

Manifesta 12. Palermo, 2018. Il traffico bloccato durante la performance di Marinella Senatore

La Caporetto del paesereale nei confronti del ben meglio equipaggiato esercito delle arti, con i suoi soldi e le sue amicizie nelle istituzioni, è avvenuta invece durante la processione/performance/presa di ostaggi (cfr. Ostaggi di Marinella) di Marinella Senatore. Durante il passaggio del corteo in via Roma, principale arteria del centro storico di Palermo, i vigili fermano il traffico e costringono una schiera di automobilisti e motociclisti a vedersi sfilare davanti una teoria dei loro peggiori incubi fattisi carne: un dream team di privilegiati con un imponibile a sei cifre, 30enni che non hanno lavorato un giorno nella loro vita e babbi che trovano il coraggio di dire in maniera squisitamente non ironica “quando l’arte contemporanea sa farsi così spontaneamente spettacolare ha il potere di svegliare le coscienze”.
La parola fine sul letale mix fra paesereale e arteland, l’equivalente dell’Enola Gay che sgancia la bombazza su Hiroshima, la mette il povero cristo incaricato dell’impossibile compito di coordinare la logistica della processione di Marinella Senatore, mentre urla a uno dei portatori degli stendardi: “L’itinerario è di kaaaà, lì finite inculati in mezzu a u trafficu”.

OSTAGGI DI MARINELLA

L’appuntamento è per le 17 ai Quattro Canti. Quando arriviamo sono le 17.15 e a quanto pare la performance è già iniziata: un animatore decisamente sovrappeso e con la pelle lucida urla istruzioni da un megafono a una serie di squadre di bimbi del GREST. Non si riesce bene a capire se sia già iniziata la performance o se siano soltanto dei freeloader in cerca di pubblico.
La confusione – forse finanche cercata dall’artista – regna nel pubblico, che continua a controllare nervosamente la mail di Manifesta chiedendosi e consultandosi con i membri del mondo dell’arte circostanti e ugualmente confusi se sia parte della performance di Marinella Senatore o solo una gita dell’oratorio. Questo caos finirà per essere un po’ la cifra stilistica delle quasi tre ore di Palermo Procession, la performance principale proposta dal public program per l’ultimo giorno di preview.
La Senatore, il suo gallerista e i suoi assistenti in ansia da prestazione come Rino Gattuso alla vigilia della finale con la Francia dirigono una banda musicale e una schiera di majorette in un percorso festoso che porta a Piazza Bellini, dove vengono introdotte due squadre di giovani ballerini e musicisti che animeranno la processione. In piazza il clima è di festa e tutti sembrano apprezzare le performance, con tanto di picciotti che leggono ad alta voce gli stendardi sbagliando le parole.
In generale il bandierismo rappresenta un trend molto in voga in questa Manifesta, con arazzi, bandiere e stendardi a far da cassa di risonanza per rivendicazioni più o meno vacue ed estemporanee nei diversi contesti, e ovviamente nulla di più adeguato a una parata/manifestazione come quella proposta da Marinella.

Manifesta 12. Palermo, 2018. La performance di Marinella Senatore

Manifesta 12. Palermo, 2018. La performance di Marinella Senatore

Ben presto la processione riparte dalla piazza e qui iniziano i guai. Il serpentone procede poco agevolmente e si spezza più volte, ostruendo il passaggio di novelli sposi, intimidendo i buttadentro dei ristoranti e bloccando il traffico con grande giubilo dei palermitani (cfr. Manifesta vs Paesereale). In generale la cosa più interessante dell’opera della Senatore risulta il suo radicamento nel tessuto sociale palermitano, in particolare il chiasmo fra gli addetti ai lavori e appassionati d’arte presenti e i performer in larga parte poco avvezzi a un ambiente del genere, le loro famiglie e i loro allenatori: “Sofia! Sorridi o mettiti in ultima fila!”, si sente tuonare la coreografa delle majorette in trance agonistica dall’alto delle sue zeppe, poco prima di ripartire dopo il travagliato concerto per archi.

Manifesta 12. Palermo, 2018. La performance di Marinella Senatore

Manifesta 12. Palermo, 2018. La performance di Marinella Senatore

La performance, per quanto lunga e stancante, sembra però perfetta per il pubblico: pochi momenti davvero apprezzabili, fra cui sicuramente l’intermezzo lirico da un balcone di una suggestiva viuzza (per quanto prontamente spernacchiata da un gruppetto di bambini) e tanti eventi invece superflui senza mai arrivare a un momento di vera profondità concettuale fino alla conclusione quasi paradossale con un discorso da parte di alcuni anziani membri dell’ANPI e le note di Bella Ciao e Va Pensiero a chiudere fra gli applausi, mentre le majorette si abbandonano stremate ai margini della strada, soccorse dai genitori.

SPAZI RINATI

Se c’è un aspetto di Manifesta inattaccabile è lo sforzo fatto per ridare alla città una serie di spazi incredibili e da tempo inagibili o l’aver reinventato in maniera impeccabile spazi già presenti.
È il caso dell’orto botanico a cui ci avviciniamo col timore di trovarci il solito giardino delle sculture noiosetto, pensiero scacciato immediatamente dal delicato lavoro di Malin Franzén, frutto di un profondo dialogo tra l’artista svedese e la tradizione botanica siciliana, perfettamente a suo agio negli spazi dedicati alla scienza.
Il lavoro di Franzén non è l’unico a stupirci all’interno di una mostra all’aperto ben curata in cui il giardino assume a tratti valore scultoreo e complementa perfettamente il lavoro degli artisti presenti, tanto da lasciarci stupiti quando incontriamo il vecchio gasometro invaso dalla vegetazione, quasi a trovarci al cospetto di un capolavoro dimenticato di Land Art, a cui il lavoro di Michael Wang si rapporta in maniera deferente e profonda.

Manifesta 12. Palermo, 2018. Michael Wang all'Orto Botanico

Manifesta 12. Palermo, 2018. Michael Wang all’Orto Botanico

Si possono dire tante cose su questa operazione; forse gli spazi andavano aperti non solo per Manifesta, ma prima, per interlocutori locali, forse sono troppo grandi e belli e schiacciano alcune opere – per esempio, gli unici due lavori video che funzionano davvero sono quelli di Taus Makhaceva e Jordi Colomer, installati in spazi interamente dedicati a loro – forse la loro decadenza è volutamente enfatizzata e spettacolarizzata per soddisfare la sindrome da crocerossina di Manifesta.
Tutte critiche legittime, che scompaiono tuttavia davanti a un’operazione come quella di Massimo Valsecchi a Palazzo Butera, riaperto grazie a un investimento notevole dal punto di vista economico ed emotivo, dando vita a un processo impressionante che per Manifesta apre le porte sul suo cantiere aperto, dimostrando vitalità e una promessa per il futuro. All’interno del palazzo effettivamente le opere non sono le migliori viste e passano quasi tutte – con l’eccezione della stanza realizzata dal collettivo Fallen Fruit – in secondo piano, ma all’uscita la sensazione generale non può che essere estremamente positiva.

Manifesta 12. Palermo, 2018. Palazzo Butera

Manifesta 12. Palermo, 2018. Palazzo Butera

In generale l’operazione portata avanti da Manifesta ricorda quanto fatto da Documenta l’anno scorso con l’EMST di Atene, ma in scala maggiore e con un’attenzione specifica alla storia della città, senza mai davvero scadere nel paternalismo da più parti sventolato in faccia agli organizzatori della storica quinquennale.
In questo discorso vanno inseriti due progetti collaterali offerti dalla città, diametralmente opposti sotto tanti punti di vista ma entrambi riusciti: il primo è Cassata Drone, giovane progetto che solleva una riflessione sulla odierna presenza militare americana nella tradizione multiculturale siciliana rappresentata dalla cassata, installato in un appartamento in cima a Piazza della Borsa da cui si ammira tutta la città, il secondo, per sua natura più imponente, dalla Collezione Berlingieri a Palazzo Mazzarino, in cui la meravigliosa installazione di Per Barclay introduce a una bella mostra tematica dai risvolti lovecraftiani.

Manifesta 12. Palermo, 2018. Per Barclay a Palazzo Mazzarino

Manifesta 12. Palermo, 2018. Per Barclay a Palazzo Mazzarino

2 BELLEZZE – 2 BRUTTURE

CALL A SPY – Se siete arrivati a leggere fino a qui, ho una brutta notizia per voi: o avete la sindrome di Stoccolma o siete dei passivi-aggressivi terminali che amano fare le cose che odiano per poi lamentarsene. In ogni caso, dopo circa 20mila battute, avrete capito cosa anima noi scemi egocentrici che andiamo ai festival d’arte e poi ve lo raccontiamo: la caciara, dare fastidio alle persone, fare auto-fiction e avere un pubblico che ci faccia l’applauso perché siamo bravi eh. Una serie di passioni che ha trovato il collasso totale perfetto in un’unica installazione: Call a Spy, del collettivo tedesco Peng! collective. Long story short: una cabina telefonica, un telefono, delle istruzioni, quattro numeri di telefono (CIA, NSA, servizi segreti francesi e tedeschi); entri nella cabina, scegli uno dei quattro possibili destinatari e la cabina ti mette in contatto con loro. C’era una lunga spiegazione su come quest’opera servisse a riappropriarsi della propria libertà, sorvegliando i sorvegliatori blablabla, e come lo scopo della chiamata fosse quello di convincere l’interlocutore a mollare il suo lavoro, ma a me non me ne fregava niente e ho fatto come il mio amico che giocava a Age of Empires II solo per accumulare l’oro perché diceva che lo faceva sentire un rapper e fregandosene del concetto di fondo del gioco si divertiva molto più di tutti noi che dovevamo stringere accordi commerciali con inintelligibili IA e produrre a ritmi industriali flotte destinate ad affondare come l’anima che ci assilla.

Manifesta 12. Palermo, 2018. Call A Spy

Manifesta 12. Palermo, 2018. Call A Spy

Quindi, da bravo leone da tastiera forte dell’anonimato assicurato dalle istruzioni, ho deciso di telefonare alla CIA. Prima che effettivamente rispondesse una povera impiegata dell’ufficio CIA del District of Columbia costretta a lavorare alla mattina di domenica, sinceramente pensavo che parte della performance/installazione potesse essere una stanza di persone nascoste da qualche parte incaricate di fingersi agenti per soddisfare la mia insaziabile voglia di scenette, oppure che si finisse per parlare con voci registrate. Invece la sventurata rispose eccome, beccandosi la mia denuncia di illecito sportivo avvenuto la sera prima: si è appena giocata Frosinone-Palermo e l’arbitro ha fatto un paio di porchette niente male, assegnando e poi ritirando un rigore al Palermo, motivo per cui decido di spifferare alla signorina della CIA che la partita è stata combinata dalla mafia. La signorina CIA mi spiega che il crimine dev’essere avvenuto in territorio americano, per cui rilancio e le dico che la partita si è disputata a Flint, Michigan. Ora, non so se anche lei fosse preda della Sindrome di Stoccolma o abbia semplicemente annusato una maniera di farsi passare più velocemente una mattinata al lavoro, ma al posto di mettere giù e tornare a giocare a Prato Fiorito ha iniziato a darmi risposte mortalmente serie, che non hanno tuttavia saziato il mio desiderio di giustizia, tant’è che ho fatto una cosa che ho sempre sognato di fare: le ho chiesto di parlare con il suo superiore, una richiesta alla quale ha risposto laconicamente che era domenica e il suo capo era probabilmente a fare un barbecue su un vero prato fiorito. Dopo cinque minuti abbondanti di conversazione, metto giù e mi accorgo che attorno alla cabina si è radunata una folla di curiosi che ha assistito alla telefonata. Esco fuori e mi becco pacche sulle spalle come se avessi trovato la cura al cancro o inventato le automobili volanti. W L’ARTE, è tutto quello che riesco a dire.
COSTA SUD ‒ Tornando su un livello meno egocentrico e più sobrio: il progetto più spontaneo e sentito della mostra ci sembra invece quello di un nome praticamente oscuro al mondo dell’arte ma che è riuscito a inserirsi come progetto ufficiale: l’architetto Roberto Collovà. Il suo Costa Sud, installato di fianco a Palazzo Costantino, è un progetto complesso ed estremamente sensibile dedicato al recupero delle zone naturalistiche di Palermo, in parte rovinate dal degrado e in parte dalla speculazione, puntando a reinventare con un esercizio di fantasia lo spazio urbano di Palermo. L’architetto compare anche nel video di Jordi Colomer, girato nell’area limitrofa, a Sud del fiume che per decenni si è posto come limite della città e si è già attivato per ridare vita ai detriti della zona grazie all’arte, oltre ad aver installato un simbolico ponte luminoso nella zona. Collovà, senza neanche sapere che siamo giornalisti, ci parla con una sensibilità, saggezza e spontaneità rara, caratteristica rispecchiata nel suo lavoro interdisciplinare.
TANIA BRUGUERA, PROFESSIONE: ARTIVISTA ‒ La vita è breve e la maggior parte del tempo la passiamo a fare cose che fanno schifo, quindi ho deciso di risparmiare il tempo che avrei speso parlando male dell’ARTIVISTA Tania Bruguera per guardare video compilation di persone che cadono con musichette buffe up-tempo in sottofondo.
Per farvi un’idea del suo lavoro, ci pensa l’articolo dei nostri compagni di squadra di Marieclaire:
La sua pratica artistica si fonda sull’idea che l’arte possa cambiare effettivamente le cose. Come? Bè aiutando le comunità locali nelle loro battaglie, dando alle loro lotte grazie alla risonanza mediatica del suo nome una visibilità internazionale. Il tutto ha dato luogo a un simpatico neologismo: l’artivismo”.
Dai, non vi è già passata la voglia di andare a vedere le sue opere?
Cosa dite? Il mio è un impianto argomentativo debole se non inesistente? Ecco, adesso sapete come ci si sente dopo essere usciti dalla sua mostra SENZA NEANCHE ESSERCI ANDATI.

Manifesta 12. Palermo, 2018. Artivismo

Manifesta 12. Palermo, 2018. Artivismo

Per dovere di cronaca, l’opera di Bruguera a Palazzo Ajutamicristo si presenta come una ricerchina superficiale sul MUOS formalizzata male, ponendosi perfettamente all’incrocio concettuale tra Lollino il militante del collettivo del liceo che si lamenta che i prof gli danno 4 perché sono fascisti, la discografia degli Ska-P e un senile rant infarcito di banalità di Vauro Senesi. Lungi da noi schierarci dalla parte del MUOS e del colonialismo USA, ma l’Artivismo non basta a giustificare un compitino così. Suvvia Bruguera, l’interrogazione era anche programmata, la prossima volta si impegni se vuole passare…
MIGRANTI E DIDATTICA ‒ L’approccio di Bruguera può espandersi a una certa superficialità che Manifesta mostra quando si approccia in maniera politica alla questione delle grandi migrazioni e alla dimensione didattica, il che stride con la sensibilità invece dimostrata in altri ambiti. Diversi lavori, specialmente nelle mostre a palazzo Ajutamicristo, Forcella De Seta e nel lavoro dei Wu Ming (sempre i soliti) nell’hub per i giornalisti al Teatro Garibaldi, cadono in luoghi comuni o eccessivi tecnicismi non sostenuti poi da un contenuto di spessore. In particolare l’uso di video e audio pensati soprattutto in senso didattico verso i visitatori delle mostre ‒ in particolare locali e studenti ‒ risultano pesanti e ridondanti, annoiando in fretta il visitatore e peccando di una certa arroganza da maestrino che è esattamente ciò che annoia l’esponente del Paesereale spingendolo ad allontanarsi dalla produzione culturale in favore dei possenti bracci di Matteo.
Insomma, siamo partiti colmi di speranze che questo pezzo si scrivesse da solo, gli ingredienti perfetti per l’ironia preconfezionata c’erano tutti: grande biennale nomade olandese, Sicilia, Paesereale, luoghi comuni e temi scottanti come ecologia e immigrazione. Purtroppo ‒ come tutte le più belle cose ‒ le nostre speranze durarono solo un giorno e abbiamo dovuto impegnarci a fondo per fare il nostro sporco mestiere.
Manifesta si è dimostrata decisamente all’altezza del suo nome e ci è risultato più difficile del previsto denigrarla, le nostre Polaroid sono quindi sfocate e nostalgiche ma uscite decisamente bene. Non ci resta che imbarcarci sul nostro volo Ryanair per Venezia, senza cannoli per le nostre amate ma soddisfatti di ciò che abbiamo visto. Bravi olandesi, bravi siciliani, bravi tutti.

Pietro Consolandi e Dario Forti

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