Milano chiama Africa. Alle Officine dell’Immagine

Officine dell’Immagine, Milano – fino al 2 aprile 2017. Una mostra riunisce le tante anime dell’Africa, interpretate da quattro artisti di provenienze e generazioni diverse. Un’attenta riflessione sui delicati temi dell’identità e dell’appartenenza.

Il titolo della mostra We call it “Africa”. Artisti dall’Africa Subsahariana suggerisce un’Africa divisa a metà dal grande deserto: da una parte un mondo citeriore, prossimo all’Europa, più vicino culturalmente. Dall’altra parte, nella terra ulteriore, al di là delle sabbie, un misterioso mondo di quella che veniva spregiativamente chiamata una volta “Africa Nera”. La rassegna dimostra che quel mondo lontano è fatto di tante piccole realtà, con una propria dignità estetica e formale e con prospettive culturali rivolte al futuro ma legate all’identità del continente.
Questa dignità identitaria sta proprio dietro al titolo della mostra: We call it, infatti, vuole essere una riappropriazione dell’immagine di questa terra che desidera essere raccontata da coloro che ci sono nati, in diversi modi e con diverse possibilità.

GLI ARTISTI

La scelta degli artisti è varia e di varia provenienza (Benin, Sud Africa, Nigeria, Repubblica Democratica del Congo), a suffragio della messa in campo, chiara sin da un primo sguardo rivolto alle opere, di diversi approcci al tema dell’appartenenza e della pluralità linguistica.
Maurice Mbikayi, nato a Kinshasa, in Congo, dove tutt’ora vive e lavora, occupa lo spazio d’ingresso alla mostra, con lavori nei quali la trasformazione e il travestimento diventano materiale performativo fissato in opere fotografiche dove l’artista, rivestito di abiti fatti di tastiere di computer, si tramuta in una specie di giullare che gioca con le possibilità del dualismo bianco/nero e con tutte le considerazioni associate a esso.
Marcia Kure, nigeriana classe 1970, utilizza uno stile che ricorda la produzione di disegni e pitture realizzate da donne africane nel solco della tradizione del territorio nigeriano. In questi lavori l’africanità è strettamente legata all’immagine della femminilità ed è in qualche modo “sporcata” dalla necessità dell’artista di aggiungere, al disegno, la tecnica del collage e della sovrapposizione, una metafora della globalizzazione culturale e sicuramente del vissuto personale dell’artista in continuo spostamento.

Dimitri Fagbohoun, Les Patriotes, 2012

Dimitri Fagbohoun, Les Patriotes, 2012

TERRA E IDENTITÀ

La giovanissima Bronwyn Katz è nata nel 1993, in Sud Africa. Grond Herinnering (Soil Memory) è un video del 2015 in cui si lava piedi e gambe immergendoli nella terra del Sud Africa e gioca come una bambina facendo gonfiare il suo abito. In questo caso la riappropriazione nei confronti della terra diventa una regressione all’infanzia e sinonimo di un rapporto sempre tangibile nonostante la distanza.
I lavori di Dimitri Fagbohoun, nato in Benin nel 1972 da padre africano e madre Ucraina, rendono evidente il sincretismo tra l’estetica della terra, identitaria, della cultura africana e gli aspetti formali dell’arte occidentale. Nelle opere esposte in galleria, infatti, i temi della storia e dell’identità africana vengono formalizzati in installazioni che ricalcano stilemi dell’arte contemporanea europea e occidentale.

Tommaso S. Monorchio

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Tommaso Monorchio

Tommaso Monorchio

Tommaso Sante Monorchio (1983) vive a Milano. Laureato in Storia dell’Arte con un Master in Marketing delle Imprese Culturali, lavora dal 2008 con case editrici specializzate in arte italiane e internazionali, come editor, traduttore e art writer. Tra le collaborazioni:…

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