Investire sulla cultura. Parola a Marina Valensise

Fondatrice di VALE – Valorizziamo Aziende Artisti Lavoro Esperienze, Marina Valensise riflette sulle positive ricadute degli investimenti in ambito culturale. Mettendo sul tavolo la propria esperienza come direttore dell’Istituto Italiano di Cultura a Parigi.

Si fa sempre un gran parlare di cultura, ma la cultura purtroppo è stata la grande assente dell’ultima campagna elettorale. Così, quando cinquanta nomi illustri, grandi personalità dell’arte, del cinema, della musica, dell’università, dell’eccellenza italiana, hanno sottoscritto il nostro appello per invitare sia la maggioranza sia l’opposizione che usciranno dalle urne a farne, dopo il 4 marzo, una priorità del loro impegno politico, fra i ranghi dei partiti è iniziato a serpeggiare il malumore. Ma come? Dopo tutto quello che abbiamo fatto per la cultura in questi ultimi anni: legge sul cinema, Art Bonus, agenda europea per la cultura, anno europeo del patrimonio, itinerari culturali…
Il fatto è che nessuno contesta l’impegno del Governo uscente sui temi della cultura. Nessuno nega i fondi profusi per restituire all’arte, al patrimonio storico, persino ai borghi, alla musica e ora anche al jazz la considerazione che meritano. Ma il perfetto silenzio durante la campagna elettorale su un tema cruciale come la cultura, e l’assenza di un vero dibattito tra le varie forze in campo sulle loro opzioni possibili, lasciano non solo perplessi, ma sgomenti.
Allora, è il caso di ricordare, a vincitori e vinti, quanto la cultura sia essenziale per la società italiana. È il caso di ribadire come la cultura, a differenza di quanto sostenevano certi ministri prigionieri della grettezza (“con la cultura non si mangia”), sia un vettore di crescita, non soltanto economico, ma soprattutto civile, ché conforta il senso di appartenenza a un territorio e facilita l’integrazione degli stranieri, tutelandone la dignità. La cultura è infatti uno di quei beni rari che, quando si dividono, si moltiplicano. Inoltre è il caso di insistere su un dato talmente evidente da passare ormai inosservato: nel mondo intero, malgrado tutto, malgrado la disinformazione, malgrado la corruzione, malgrado la criminalità organizzata e altri mali, l’Italia continua a essere considerata un Paese sinonimo di civiltà e cultura. Solo i detrattori professionisti, i rancorosi per dovere di share, i cinici e i pessimisti per riflesso condizionato trascurano questo dato insistendo nell’autodenigrazione, che serve solo ad alimentare un doppio complesso di inferiorità e di superiorità, senza permettere di conoscere la realtà. È bene allora mobilitarsi per metterli in mora e ritornare ai fondamentali.

La cultura è infatti uno di quei beni rari che, quando si dividono, si moltiplicano”.

Non sarà inutile, dunque, insistere sulle infinite possibilità che nascono dal condividere la stessa visione tra soggetti diversi. La mia esperienza alla direzione dell’Istituto Italiano di Cultura di Parigi lo dimostra. In pochi anni, puntando solo sulla cultura, e cioè sull’arte, sulla musica, sul cinema, sull’archeologia, sul design, sull’architettura, sulla letteratura, sull’editoria, sulla danza, sul teatro e persino sulla gastronomia, siamo riusciti a federare le forze vive dell’imprenditoria italiana. Abbiamo coinvolto industriali di punta, creatori di aziende che tutto il mondo ci invidia, artigiani e progettisti in una strategia di valorizzazione partecipata. Abbiamo restituito a ex operai, inventori di genio, spiriti semplici, grandi sognatori ma coi piedi per terra, il ruolo da protagonisti della cultura italiana, e soprattutto l’orgoglio di una missione comune, da realizzare insieme entro i perimetri della pubblica amministrazione.
I risultati sono stati sorprendenti. Oltre a dotare un bene demaniale di un capitale in prodotti e servizi pari a più di un milione di euro, abbiamo moltiplicato le entrate proprie di un organismo pubblico, raddoppiando la dotazione annuale ricevuta dallo Stato, aumentando aumentato del 40% la frequentazione del pubblico e di circa il 20% le iscrizioni ai corsi di lingua.
Il modello di valorizzazione partecipata, descritto nel mio ultimo libro (La cultura è come la marmellata, Marsilio 2016), rappresenta dunque un piccolo esempio di come investire sulla cultura, lungi dal costituire un onere passivo, anzi un costo da tagliare per ridurre il debito pubblico, possa diventare al contrario una scelta vincente, specie in tempi di crisi, per far fronte alla riduzione delle risorse, innescando una nuova dinamica economica e civile. A condizione, naturalmente, di puntare su qualità e rigore, riunendo le forze per coinvolgere i privati, e stimolarne lo spirito imprenditoriale e l’apertura al rischio su un terreno spesso inesplorato, ma di inaspettata fertilità.

Abbiamo restituito a ex operai, inventori di genio, spiriti semplici, grandi sognatori ma coi piedi per terra, il ruolo da protagonisti della cultura italiana, e soprattutto l’orgoglio di una missione comune, da realizzare insieme entro i perimetri della pubblica amministrazione”.

Urge allora una strategia, e dunque una visione. Ma per avere una visione non basta la competenza, serve la passione e serve il rigore. Ma, dicevano gli scettici, è facile promuovere la cultura italiana a Parigi, capitale mondiale della cultura… vallo a fare a Sinopoli, a Presicce, a Solofra o a Mirabella Eclano. Ai tanti pessimisti di professione, agli affossatori di ogni entusiasmo, ai sabotatori in servizio permanente ed effettivo vorrei solo ricordare che l’Italia stessa, e anzi tutta l’Italia col suo immenso patrimonio diffuso, è uno sconfinato Istituto di Cultura che per ripartire e rimettersi in gioco aspetta solo una leva consapevole.

Marina Valensise

www.marinavalensise.com

Articolo pubblicato su Artribune Magazine #42

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