Biennale di Venezia. Quattro mostre da vedere nel weekend

Se non ci siete ancora stati, se tornate per gli eventi di chiusura, se ancora vi manca qualcosa. Insomma, se questo weekend andate alla Biennale di Venezia, noi vi suggeriamo un piccolo percorso in quattro tappe. Il fil rouge è la curatela italiana, e soprattutto l’impegno politico che non cede al documentarismo. Dalla Grecia all’Albania, dall’Estonia alle donne di tutto il mondo.

FINISSAGE DELLA BIENNALE: UN PERCORSO IN QUATTRO TAPPE
Ha un certo fascino visitare le grandi rassegne internazionali durante i finissage: nulla a che vedere con la ridda di eventi che costellano la loro apertura, ma i pregi sono molti, a partire dal fatto che ci si è potuti documentare e farsi un’idea ragionata su quel che propone il curatore della rassegna stessa.
Di cosa accadrà nel weekend finale della Biennale di Venezia 2015 vi parleremo a breve. Qui ci vorremmo concentrare invece su un piccolo percorso in quattro tappe che ha come fil rouge la curatela italiana di padiglioni e mostre collaterali. In un percorso che parte dai Giardini, con il Padiglione della Grecia; che transita per l’Arsenale, con il Padiglione dell’Albania; che esce in città, per andare a Palazzo Malipiero per il Padiglione dell’Estonia e poi finire con l’installazione alla Chiesa di San Gallo.
E se il filo rosso più evidente sulla carta è relativo alla cittadinanza dei curatori, immediatamente dopo la visita emerge quello ben più rilevante dell’impegno squisitamente politico di queste mostre, dell’attenzione a tematiche caldissime del nostro tempo, approcciate però senza nulla togliere – anzi – al linguaggio dell’arte. Quattro mostre che non lasciano spazio alla mera documentazione, ma che al contrario sottopongono al visitatore nodi problematici scottanti con un afflato poetico che ne amplifica a dismisura la portata etica.

DA VOLOS A VENEZIA, UNA BOTTEGA DI PELLAMI
Si parte dunque dai Giardini della Biennale, e in particolare da quel piccolo ma prezioso raggruppamento di edifici al di là del canale. Al Padiglione della Grecia è allestita Agrimiká. Why Look at Animals di Maria Papadimitriou (Atena, 1957), per le cure di Gabi Scardi. Lo scenario di fondo è, inevitabilmente, la profonda crisi economica che ha colpito il Paese mediterraneo.
Riprodotta in scala 1:1, in sala si trova una bottega di Volos dove si concia e produce pelle e cuoio; ed eloquente è lo stesso termine “agrimiká”: indica quegli animali che, pur vivendo a stretto contatto con l’uomo, non si possono definire addomesticati; quegli animali che – come ci ha raccontato l’artista – “ci resistono per evitare di diventare di nostra proprietà”. Senza voler troppo semplificare, questo atteggiamento di resistenza intelligente potrebbe essere ben recepita come un invito rivolto allo stesso visitatore: le dinamiche politico-economiche che ci investono ricorsivamente non sono frutto di un processo inevitabile e inarrestabile.
Per riprendere le parole di Papadimitriou: “La situazione attuale di demolizione e degrado del paesaggio urbano rivela un terreno per la melanconia e l’inerzia. Con ‘Agrimiká’, con la vecchia bottega e le storie che vi sono state narrate, vorrei proporre un’altra visione della Grecia contemporanea, che oltrepassi i preconcetti e le immagini alle quali siamo abituati”. Una – anzi: molte – visione differente che non è in alcun modo pilotata dall’artista, la quale si limita a fornire spunti di riflessioni e squarci di alternative. Un limite che è consapevolmente risorsa offerta al visitatore.

Armando Lulaj - Padiglione Albania - Biennale di Venezia 2015

Armando Lulaj – Padiglione Albania – Biennale di Venezia 2015

QUEL SOMMERGIBILE È UNA BALENA
Una volta terminata la mostra internazionale di Okwui Enwezor all’Arsenale, iniziano a dispiegarsi alcuni padiglioni nazionali. Tra i primi, quello dell’Albania, con Armando Lulaj (Tirana, 1980) e la sua Albanian Trilogy curata da Marco Scotini.
Qui la riflessione politica è palese, a partire dall’esposizione di parte dell’opera completa di Enver Hoxha, dittatore in un Paese non allineato dalla fine della Seconda guerra mondiale al 1985, anno della sua morte. Ma, come insegna La lettera rubata di Edgar Allan Poe (e tutte le riflessioni al proposito, a partire da quella offerta da Jacques Lacan), le esposizioni più palesi sono quelle che meglio nascondono il proprio oggetto. E anche qui è questione di “invenzione del nemico”, come sottolinea Scotini sulla scorta di Carl Schmitt: Lulaj procede infatti da un qui pro quo che ha dell’assurdo, un lapsus che fece scambiare una balena per un sommergibile nemico. Balena colpita e affondata, e poi conservata al Museo di Storia Naturale, e ora trasportata eroicamente a Venezia.
Questo racconta Lulaj nei suoi video: di “equivoci stratagemmi” – come la devastante scritta Arbeit macht Frei posta all’ingresso del campo di concentramento di Auschwitz – che però sono inseriti in contesti complessi, e che paiono semplici da identificare come tali, ma solo ponendosi fuori da quello stesso contesto, per distanza temporale e/o spaziale. E se riuscissimo almeno in parte ad applicare questa lucidità al nostro spazio-tempo, cosa riusciremmo a vedere? “Terreni friabili lì dove ci si aspetta di trovare potenti rappresentazioni non scalfibili”, come suggerisce Marco Scotini.

Jaanus Samma - Padiglione Estonia - Biennale di Venezia 2015

Jaanus Samma – Padiglione Estonia – Biennale di Venezia 2015

OMOSESSUALITÀ COME COLPA DI UNA VITA
Usciti dal circuito più battuto della Biennale di Venezia, il nostro percorso punta a Palazzo Malipiero. Qui sono allestiti i Padiglioni di Cipro, Montenegro ed Estonia. Quest’ultimo è curato da Eugenio Viola e consiste nel racconto di una vita, quella di Juhan Ojaste, a opera di Jaanus Samma (Tallinn, 1982).
È la storia di “un dirigente di successo di un kolkhoz, un eroe di guerra, membro del partito e uomo di famiglia, coinvolto in un umiliante processo per ‘atti omosessuali’ nel 1964, in seguito al quale è espulso dal partito e condannato a un anno e mezzo di lavori forzati”, racconta Viola. “Abbandonato dalla famiglia, perde lavoro e status sociale. Costretto a cambiare città, svolge lavori sempre più umili, e finisce assassinato nel 1990 per mano di un prostituto, un sedicente soldato russo, un anno prima dell’indipendenza e della successiva depenalizzazione dell’omosessualità in Estonia”. Una storia, dunque, di libertà negate: libertà nella sfera della sessualità, ma in senso più ampio libertà di compiere scelte individuali che non siano normate brutalmente dallo Stato. E va da sé che il pensiero corra alla vera e propria persecuzione che gli omosessuali sono costretti a subire ad esempio in Russia, ma che anche nel nostro Paese riemerge di continuo in maniera più o meno eclatante.
Ma, appunto, il quadro in cui s’inserisce questo genere di discriminazione è ben più ampio e inquietante: “Il nostro presente incerto è attraversato dal rinfocolarsi di vecchi e nuovi integralismi, legati a fenomeni di intolleranza non solo di genere, ma anche di natura sociale, politica, religiosa, culturale”, sottolinea il curatore, e in questi giorni la dichiarazione assume tutta la sua terribile attualità. E così, fra materiali d’archivio e opere create ad hoc, viene ricostruita una vicenda esemplare. Con l’obiettivo strategico di “gettare uno sguardo altro sulle lacerazioni del presente”, in quel modo unico che appartiene all’arte.

Patricia Cronin, Shrine for Girls, Venezia 2015 - photo Mark Blower

Patricia Cronin, Shrine for Girls, Venezia 2015 – photo Mark Blower

VIOLENZA DI GENERE DA ORIENTE A OCCIDENTE
Da Campo San Samuele ci si sposta in zona San Marco, alla Chiesa di San Gallo – che in molti ricorderanno per aver ospitato nel 2007 la videoinstallazione di Bill Viola. Quest’anno è invece di scena Patricia Cronin (Beverly, 1963) con un triplice intervento curato da Ludovico Pratesi.
Inserito fra gli eventi collaterali della Biennale, Shrine for Girls sollecita un rimando formale alla Venere degli stracci di Pistoletto, ma concentra il suo messaggio in maniera molto mirata. Prima tappa di un percorso globale, l’allestimento veneziano occupa i tre altari della piccola chiesa, dedicando l’affastellamento rispettivamente di sari, hijab, grembiuli e uniformi alle donne discriminate, violentate, schiavizzate, torturate, uccise in India, Nigeria e in civilissimi Paesi anglosassoni. E anche in questo caso, come nei tre che abbiamo brevemente analizzato, l’arte non documenta bensì invita alla riflessione generale, partendo da fatti individuali e non abdicando al proprio mutevole linguaggio.

Che questi quattro esempi particolarmente riusciti siano frutto del lavoro di altrettanti curatori italiani, beh, non può che essere una buona notizia.

Marco Enrico Giacomelli

http://agrimika.com/
http://www.albanianpavilion.org/
http://chairmanstale.com/
http://www.shrineforgirls.org/

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Marco Enrico Giacomelli

Marco Enrico Giacomelli

Giornalista professionista e dottore di ricerca in Estetica, ha studiato filosofia alle Università di Torino, Paris 8 e Bologna. Ha collaborato all’"Abécédaire de Michel Foucault" (Mons-Paris 2004) e all’"Abécédaire de Jacques Derrida" (Mons-Paris 2007). Tra le sue pubblicazioni: "Ascendances et…

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