Biennale Updates: ombre e tessuti per il Padiglione Azerbaijan e per il focus sull’arte tra Caucaso e Medio Oriente all’Arsenale Nord. Nelle creazioni di Farid Radulov e Fahrad Moshiri una orgogliosa dichiarazione di identità

Ha cullato la propria cultura per decenni, proteggendola con orgoglio dalla massificazione di un regime che costruiva il consenso sulla legge dei numeri, dell’appiattimento, dell’uguaglianza forzosa. Una coscienza identitaria fortissima quella dell’Azerbaijan – e lo stesso si può dire per molte altre repubbliche caucasiche – che ha permesso al Paese di resettare con un apparente […]

Ha cullato la propria cultura per decenni, proteggendola con orgoglio dalla massificazione di un regime che costruiva il consenso sulla legge dei numeri, dell’appiattimento, dell’uguaglianza forzosa. Una coscienza identitaria fortissima quella dell’Azerbaijan – e lo stesso si può dire per molte altre repubbliche caucasiche – che ha permesso al Paese di resettare con un apparente colpo di spugna la lunga parentesi sovietica ed evitare l’ebbrezza da libertà che ha rovinosamente colpito altre aree, oggi pantomima kitsch del capitalismo più sfrenato. Sorprende in positivo la partecipazione del piccolo Paese alla Biennale: sia nel Padiglione accolto a Palazzo Lezze, sia in Love me, love me not, collettiva che all’Arsenale Nord sonda la scena di una macroarea che abbraccia Turchia, Iran e dintorni, quasi seguisse idealmente uno degli itinerari mistici di Gurdjieff.
Un’espressività istintiva, a volte struggente nella sua limpida didascalia, reazione stupefacente a una cultura – quella islamica – profondamente aniconica: i media privilegiati sono quelli della tradizione popolare, con la tessitura elevata a sublime forma d’arte – l’Afghanistan di Alighiero Boetti non è troppo distante – e il gioco sensuale delle ombre a creare effetti di intima magia. Farid Radulov deve avere in mente Rudolf Stingel quando paluda un intero ambiente di tappeti, rivestendo pareti e suppellettili di sgargianti panni a trame geometriche. Una riuscita formulazione glocal: perché se la forma è eminentemente caucasica il mobilio risponde al cliché della tipica casa occidentale, con tanto di schermo al plasma, opportunamente imbavagliato nella tela. Hanno dimensioni più vicine ai tappeti da preghiera, invece, quelli impilati da Fahrad Moshiri, che compie un processo diametralmente opposto: non è l’Oriente a invadere l’Occidente ma vice versa, attraverso la riproduzione delle versioni locali di magazine su gossip e dintorni. Una vera e propria trasfusione di mitologia consumistica – che c’azzecca Madonna, da queste parti?

Aggirarsi tra le pieghe del Padiglione Azerbaijan è come leggere la biografia del Mullah Omar scritta da Massimo Fini: si percepisce davvero una natura altra, aliena al modo di vedere di un Occidente che pretenderebbe, da questi Paesi, una coscienza forse più critica, attenta alle contraddizioni di una politica autoritaria e un’economia viziata da opacità. L’impressione è che, invece, l’anima di queste terre sia magnificamente impermeabile, impenetrabile, tenacemente ed eroicamente stretta a un passato mitico. Impossibile da scalfire.

– Francesco Sala


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Francesco Sala

Francesco Sala

Francesco Sala è nato un mesetto dopo la vittoria dei mondiali. Quelli fichi contro la Germania: non quelli ai rigori contro la Francia. Lo ha fatto (nascere) a Voghera, il che lo rende compaesano di Alberto Arbasino, del papà di…

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