
Come nostalgiche soglie, appesi in una luce asettica, quasi da morgue, materassi di varie dimensioni e colorati nei più svariati modi occupano la prima sala della galleria. Memori del Bed di Robert Rauschemberg e del My Bed di Tracey Emin, le macchie – che ricordano secrezioni spermatiche o mestruali – su di essi si trasfigurano come se viste alla luce ultravioletta. A toccarli, però, i materassi si rivelano di silicone: non più l’avvolgente superficie soffice dei nostri sonni, ma il risultato della sovrapposizione di strati di materiale plastico che restituisce, indurendosi, campiture di colore imprevedibili.

Di sopra, piante grasse recise con forme falliche rimandano al mondo di frustrazioni domestiche da cui provengono anche i tappetini da bagno su cui ancora si leggono le pieghe impresse dai piedi che li hanno solcati: esattamente come di sotto, dove le tracce delle più intimamente vitali secrezioni si mischiano alle pieghe dei materassi. Ma gli uomini che hanno fatto sesso, dormito e passeggiato qui, dove sono? Non ci sono più, cancellati da un futuro post-apocalittico o da un presente sull’autobus, nell’esilio delle personalità tra le cuffie degli iPhone. Grazie a Kaari Upson (San Bernardino, 1972), viene proprio da chiedersi se gli esseri umani ancora esistano.
Giulio Dalvit
Milano // fino al 9 novembre 2013
Kaari Upson – Sleep with the key
MASSIMO DE CARLO
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