Dentro i mondi virtuali. Ecco come si costruisce l’architettura dei videogiochi 

Nei migliori videogiochi gli ambienti nascono dall’incontro tra architettura, percezione e game design. Al centro di questo processo c’è il visual development artist, che definisce volumi, ritmi e intenzioni dello spazio prima della modellazione finale, ma rimane spesso dietro le quinte

Negli studi che sviluppano titoli complessi come GTA, gli ambienti non nascono dal lavoro di una sola figura, ma da un ecosistema di competenze che intreccia architettura, scenografia, percezione visiva e game design. Tra queste, il ruolo – spesso poco noto – del visual development artist è centrale: è il professionista che immagina e struttura gli spazi prima ancora che vengano modellati nella loro forma definitiva. È un processo che unisce osservazione, progettazione e narrazione. Si immaginano luoghi, si definiscono volumi e distanze, si stabiliscono ritmi e atmosfere. È in questa fase che ho lavorato per nove anni all’interno di Rockstar Games, contribuendo alla progettazione di interni che oggi migliaia di giocatori attraversano, inconsapevoli di quanto lavoro preliminare sia necessario per renderli così naturali. 

Starlet Motel, Port Gellhorn, GTA VI © Rockstar Games
Starlet Motel, Port Gellhorn, GTA VI © Rockstar Games

Dal concept al “blockout”: dove nasce uno spazio digitale 

La costruzione di uno spazio digitale nasce quasi sempre da una fase sorprendentemente minimale: il blockout. Qui non esiste alcuna estetica, solo superfici pulite e volumi essenziali utili a testare la larghezza dei percorsi, la libertà della telecamera, la leggibilità della circolazione, la relazione tra aree aperte e strettoie, e il ritmo dell’attraversamento. È qui che si stabiliscono le intenzioni fondamentali: uno spazio potrà comprimere o aprirsi, guidare o lasciare respirare, creare sorpresa o offrire sicurezza. Tutto dipende da ciò che il giocatore dovrà effettivamente fare. 

Gli spazi dei videogiochi nascono dal gameplay 

Le misure non sono mai arbitrarie: un’area pensata per l’esplorazione richiede volumi ariosi e punti di lettura chiari, mentre un ambiente destinato al combattimento o agli inseguimenti ha invece bisogno di corridoi più larghi, diagonali visive libere, zone di copertura, libertà di rotazione per la camera. Le sequenze narrative, invece, vivono di strettoie e varchi, di inquadrature studiate per orientare lo sguardo verso dettagli significativi. Anticipare questi bisogni funzionali è uno dei compiti principali del development artist: comprendere come un luogo deve funzionare prima ancora di decidere come dovrà apparire. 

Cal Hampton, GTA VI © Rockstar Games
Cal Hampton, GTA VI © Rockstar Games

Il fondamentale ruolo dei “choke points” nel costruire un videogioco 

Una parte cruciale del processo riguarda la gestione della percezione. I choke points, ad esempio, non sono semplici strettoie, ma veri e propri momenti di controllo che modulano il ritmo dell’esperienza e preparano ciò che sta per accadere. Nei miei anni in Rockstar ho lavorato spesso a questi elementi micro-architettonici: piccole soglie, restringimenti, cambi di luce o di quota che, nella loro apparente semplicità, determinano come un giocatore interpreta lo spazio. In un appartamento, ad esempio, il choke point può coincidere con un varco tra il soggiorno e il corridoio: una soglia più stretta o un lieve cambio di quota costringono il giocatore a rallentare. Immaginiamo un living ampio e luminoso, in cui il giocatore si muove in maniera libera, seguito da un corridoio compresso che conduce alla camera: il passaggio obbligato dalla porta incornicia la vista, isola un dettaglio, modifica l’acustica, crea un momento di transizione percettiva. Quel restringimento separa solo due stanze, ma suggerire che il tono dell’esperienza sta mutando, che si sta entrando in uno spazio più privato, più raccolto. 

La grammatica invisibile dei videogiochi 

Le linee di vista, allo stesso modo, guidano senza essere percepite: uno scorcio diagonale che anticipa la cucina, una lama di luce che colpisce un oggetto rilevante, un contrasto tonale che attira verso una porta socchiusa. Anche le silhouette volumetriche aiutano a leggere immediatamente la funzione degli spazi — la massa del divano, la verticalità di una libreria, il vuoto centrale del soggiorno — mentre le zone filtro, come l’ingresso o un breve disimpegno, modulano il passaggio tra un’atmosfera e l’altra attraverso proporzioni, materiali o suoni diversi. Nel mio lavoro considero questi elementi come una grammatica invisibile: un linguaggio fatto di spazio, luce e ritmo, capace di raccontare molto più delle parole. Ed è proprio in questa micro-coreografia dello sguardo che lo spazio inizia davvero a parlare. 

Port Gellhorn, GTA VI © Rockstar Games
Port Gellhorn, GTA VI © Rockstar Games

Il “dressing”: quando un luogo prende vita 

Solo quando la struttura funzionale è solida si passa al dressing, il momento in cui un ambiente inizia davvero a respirare. Qui entrano in gioco materiali, texture, colori, oggetti, illuminazione, rumori, superfici consunte, polvere: tutto ciò che racconta la storia implicita del luogo. Il dressing non è un abbellimento, ma un atto narrativo: definisce chi abita quello spazio, cosa accade quando non lo si osserva, quale memoria si deposita sulle superfici. Restituisce identità, densità, vita. Quando un ambiente è progettato bene, il giocatore non se ne accorge. Si muove con naturalezza, intuisce dove andare, percepisce atmosfere e tensioni senza che nulla venga spiegato. Il lavoro del visual development artist, tanto fondamentale quanto invisibile, è proprio questo: costruire mondi coerenti, leggibili e vivi, capaci di comunicare molto più di quanto mostrino. 

Claudia Manenti 

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